Novembre 2021: sono a casa di mio nonno, chiacchieriamo. Dopo un po’ interrompe il discorso e si alza per girare la minestra. Dandomi le spalle sembra tornar giovane mentre canticchia: «Ma che aspettate a batterci le mani / a mettere le bandiere sul balcone? / Sono arrivati i re dei ciarlatani / i veri guitti sopra il carrozzone!». Si voltano tutte le sue rughe a guardarmi, e mi racconta di quando Dario Fo era venuto a Cuneo: era entrato in scena cantando con tutta la compagnia e facendo un gran baccano baldanzoso! E aveva pure fatto salire una folla di spettatori sul palco insieme a lui!

Novembre 2015: stesso teatro, io, un libro sottobraccio. Un Dario Fo invecchiato, stanco, ma dagli occhi ancora fulgidi e dalla lingua vivace. Al momento del firma copie, mi metto in fila. Sporgo all’assistente la vecchia copia di un libro di mia madre; lei la passa al Premio Nobel. Dario Fo lo prende in mano, lo guarda… e si ferma. È sorpreso. L’assistente fissa me, ragazzina, con uno sguardo da «ma che cosa gli hai dato?», e lui… in un soffio: «Ma… allora… c’è ancora qualcuno che lo legge» e dal suo viso (la copertina reca un suo autoritratto) passa al mio. Fo è sorpreso e contento, oserei dire soddisfatto. Io sorrido e, incredula, lo ringrazio.

Ma perché Dario Fo era tanto stupito? Si tratta de Il paese dei Mezaràt: il libro in cui Dario racconta come è iniziato il suo percorso. Con questo scritto intende presentarci «il prologo della mia avventura a partire dal tempo in cui mai mi sarebbe passato per il cervello che quello del teatrante sarebbe diventato il mio mestiere definitivo», in base a un’affermazione di Bruno Bettelheim: «Di un uomo basta che mi diate i primi sette anni della sua vita, lì c’è tutto, il resto tenetevelo pure».

Dario è figlio di un ferroviere, e avendo cambiato residenza varie volte in base alle richieste delle FF.SS., osserva e assimila qualche caratteristica da ogni paese in cui si trasferisce, da ogni tipo di abitante che incontra. Quando sua madre rimane nuovamente incinta, lui viene spedito da quello che sarà inconsapevolmente il suo primo maestro: il mitico nonno Bristìn, «che vuol dire “seme di peperone”. Ho scoperto quasi subito la ragione di quel titolo: le battute e i commenti di mio nonno piccavano lingua e stomaco di chiunque si trovasse a ingoiarle». Un giorno il nonno se lo carica sul barroccio colmo di ceste di frutta e mazzi di fiori appena colti e lo porta con sé per un bel «percorso mercatale». Ogni volta che si fermano in un cortile, in una cascina o in una piazza parte quello che lui definisce «il rito della vendita con farsa»: la gente accorre in gran numero e pare più per ascoltare e ridere a crepapelle delle battute, delle storie strampalate e degli elaborati sfottò a sfondo sessuale del nonno (cui le verdure ben si prestavano) che per vera necessità di comprar roba. «Luciano di Samosata diceva: “Tutto dipende dai maestri che hai avuto. Ma attento, spesso i maestri non sei tu a sceglierteli, sono loro che scelgono te!”. Mio nonno Bristìn mi aveva scelto come suo allievo di clowneria tenendomi in groppa a quel gigantesco bertocco manco fossi lo gnomo Patapò!».

Il più approfondito momento formativo avviene però nel luogo che dà il titolo a queste pagine, ovvero Porto Valtravaglia, un paese in riva al lago caratterizzato da un’enorme vetreria. Gli abitanti vengono chiamati Mezaràt, mezzo topo, cioè pipistrelli, per via del fatto che i forni della vetreria dovevano restare sempre in funzione e quindi buona parte della popolazione era costretta a turni continui, sia che si lavorasse in vetreria, sia che ci si occupasse della pesca o che si avesse in gestione un’osteria. «Ma fra tutta ‘sta caterva di fantasisti sbilenchi, i personaggi che raccoglievano maggior attenzione e rispetto, erano senz’altro i contastorie e i frottolani.»

Qui il piccolo Dario osserva e impara come si fa a soddisfare quella che sarà poi tutta la sua idea di poetica: interpretare la realtà, affrontare fatti moralmente più o meno gravi e di argomenti eticamente delicati o fastidiosi, in modo da arrivare dritto all’animo del pubblico partendo da una favola, da un racconto mitico: una vera tecnica aedica. «I fabulatori erano la gloria e il vanto di questo mio nuovo paese. […] Spesso raccontavano di fatti accaduti secoli e secoli fa… ma era una ribalderia, cioè prendevano a prestito storie mitiche per trattare della realtà quotidiana e degli avvenimenti della cronaca più recente giocando di satira e di grottesco». Fo racconta, inoltre, come spesso negli scritti dei racconti medievali si trovino «le radici di ogni fabulazzo che ho appreso dai miei cantastorie. Fabulazzi che non vengono mai pedissequamente ricalcati, ma trasportati dentro il nostro tempo con accelerazioni paradossali di una modernità a dir poco sconvolgente»: è vero che Dario Fo ha letto e studiato tantissimi testi dell’antichità, ma ci dichiara anche esplicitamente che nei suoi spettacoli il suo intento non è quello di ripresentare qualcosa di filologicamente corretto, ma qualcosa che possa comunicare direttamente col presente contemporaneo, modificando alla necessità qualche dettaglio di contesto.

Sempre ne Il paese dei Mezaràt viene piantato il seme di quella che diventerà una delle sue più famose caratteristiche teatrali, la sperimentazione linguistica: si tratta del suo celeberrimo grammelot. Di tanto in tanto compare per strada un castello su ruote, formato da pentole, padelle, tegami, casseruole, pignatte, bacini di zinco e di rame… e sopra un contastorie, simile al nonno Bristìn, un venditore ambulante con un nome da gitano: Caldera-Magnan. Costui parla in un dialetto mescolato a parole «foreste», un miscuglio di lingue che par caotico ed eppure è comprensibile, come una koinè sovralinguistica. Caldera-Magnan trova nel paese già una situazione ben predisposta a comprenderlo a causa delle diverse origini degli abitanti. Dario non ci presenta che un accenno, un paio di frasi, che sono dei patchwork di idiomi, mentre si specializzerà poi da adulto nel comporre veri e propri testi in cui le parole possono essere sostituite direttamente da suoni dall’efficacissima espressività, parole inventate e parole lontane, il tutto infarcito di una buona dose di maestrale improvvisazione da Commedia dell’Arte: «Certo a quel tempo, ragazzino com’ero, non mi rendevo conto che in quella strana fucina di lingue e dialetto stessi frequentando una irripetibile università della comunicazione, un’esperienza che mi avrebbe permesso di comporre all’infinito moduli espressivi di sconosciuta libertà».

Queste sono solo alcune piccole pennellate di infanzia: altre mille buffe bricconate, storie inventate, episodi mascherati e mirabolanti canzonature si trovano tra le pagine di Dario Fo: «Ma che aspettate a batterci le mani / a metter le bandiere sul balcone? / Sono arrivati i re dei ciarlatani / i veri guitti sopra al carrozzone. / Venite tutti in piazza fra due ore / Vi riempirete gli occhi di parole / La gola di sospiri per amore / E il cuor farà tremila capriole!»

Catalina Boschero

Leggi la presentazione di ’900 italiano a cura di Enrico Bormida e Andrea Borio