A volte ci spezziamo. È il dolore, si annoda, si scioglie. Andiamo avanti così
Quando ci si spezza, è per sempre? Oppure c’è una possibilità che qualcuno o qualcosa ci sani? L’amore, alla fine di tutto, salva? Oppure esiste una paura più grande, una fragilità universale, che tutto sfregi, e annulla, pur rendendoci tutti, in fondo, fratelli?
Sono solo alcuni degli interrogativi che ci si pone durante la lettura di 🔗Di spalle a questo mondo, il nuovo, struggente romanzo di Wanda Marasco. La storia si snoda attorno alle figure di Ferdinando Palasciano (Capua, 1815 – Napoli, 1891), medico napoletano, patriota e filantropo considerato antesignano della Croce Rossa, e della moglie, la nobildonna russa Olga de Wawilov. I due si conoscono e si innamorano grazie alla zoppia di quest’ultima, curata dal luminare. Nella torre con giardino fatta costruire da Palasciano a Capodimonte e tuttora visibile, il loro diventa un matrimonio sacro, adorante, anche nelle piccole, ordinarie, cose del quotidiano. Ma quando Ferdinando, negli ultimi cinque anni della sua vita, perde il senno a causa dell’incapacità di cedere ai ricatti del potere, Olga ricomincerà a claudicare, risvegliandosi nel suo corpo, quasi unito fatalmente a quello del marito, la memoria sopita di un dolore antico, recondito. Di fatto insanabile, come certi dolori bambini che ognuno porta con sé, per sempre.
Partendo dal momento in cui Olga prende la decisione sofferta di far internare temporaneamente il marito a Villa Fleurent, la storia si dipana in modo non lineare, secondo la successione di flashback e ritorni al presente che dettata dalla memoria, dai movimenti dell’anima dei due personaggi.
E il dolore che essi incarnano con le loro storie e i loro corpi, speculari e complementari, non è racchiuso nella mera dimensione individuale, ma è riflesso del mondo, di una società – quella del Risorgimento e poi dell’ Unità d’Italia – dilaniata da istanze di rinnovamento e da profonde contraddizioni. Si tratta del dolore o, meglio, della malattia che investe in senso sveviano anche chi si crede sano e pensa di essere animato da alti ideali, dalla ricerca di una qualche verità possibile sulle cose. Dinanzi alla nullità dell’uomo di fronte al destino e alla morte, non resta forse che la follia, quale mezzo ermeneutico per riconsiderare e dare senso all’esistenza. O quanto meno al suo racconto. Ché forse non esiste altra cura che la parola, la parola pronunciata e intrecciata all’infinito nelle pieghe della memoria: “Forse era vero. Tutto poteva essere rivissuto, salvato dalla consumazione”.
È il sentimento universale della ferita e dell’abisso, la contemplazione instancabile e impietosa della luce e dell’ombra, la cifra che anima questo romanzo, insieme a una lingua pirotecnica e vibrante, che contempla la forza evocativa della poesia, la precisione materica dei dettagli, l’espressività teatrale delle voci di Napoli e del dialetto campano. Una lingua ricca e sapientemente intessuta, che conferisce al racconto la forza, potente e visionaria, della grande letteratura.
Maria Consiglia Alvino
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