Un affascinante uomo in sedia a rotelle, una vedova incapace di superare il passato e un’immensa e decadente villa nel Wiltshire sono gli ingredienti principali di Corrigan, il (post)moderno dramma morale che Caroline Blackwood consegna alle stampe nel 1984, adesso fruibile nella nuovissima traduzione di Monica Capuani per Codice Edizioni. Come suggerisce Andrew Solomon nell’illuminante postfazione del romanzo, una volta giunti a metà dell’opera si comincia a intravedere il piano criminale meditato da Corrigan ai danni della signora Blunt, consapevolezza che spinge il lettore a imbastire una gara immaginaria con i vari personaggi a chi smaschererà l’infermo per primo.
Sul finale, però, si raggiunge progressivamente la contezza che gli unici a non aver compreso in tempo l’inquietante scenario sono proprio chi legge e Nadine, figlia della protagonista e personaggio assolutamente incapace di penetrare la psicologia di Devina Blunt, il che realizza il vero proposito dell’autrice: farsi beffe di coloro che si sarebbero creduti più scaltri degli attori di Corrigan. Nella sua semplicità di stile e nella sua apparente linearità narrativa, infatti, il romanzo di Blackwood costringe a una riflessione morale ben più profonda, evidenziando quindi nel testo un portato filosofico assolutamente inatteso: per quanto ancora crederemo stringenti le categorie di vittima e carnefice?
Della loro evanescenza si rende subito conto la domestica Murphy, profondamente segnata dalla lealtà verso la signora Blunt, ma è solo attraverso l’azione di Nadine che infine si raggiunge la cognizione della “liquidità” – per dirla con Bauman – di tali attributi esistenziali. Insieme ai personaggi, magistralmente delineati nella loro imperfezione, pagina dopo pagina cresce moralmente anche il lettore, sballottato tra il desiderio di condannare l’iniquità di Corrigan e la possibilità di interpretare sotto una veste più alta il comportamento del protagonista. Quella che descrive Blackwood, d’altronde, ha il difetto di essere una storia troppo credibile, troppo ordinaria in una società votata alla sopraffazione del più debole, così si rende necessaria l’istituzione di uno scopo maggiore, che l’autrice trova tanto nella lezione morale al lettore quanto nell’educazione sentimentale di Nadine, ingabbiata in asfissianti convenzioni matrimoniali.
È lei il personaggio femminile che si emancipa più tardivamente – Corrigan non si ritrae dall’ammiccare alle recenti conquiste del femminismo – ma, al contempo, è anche l’unico punto di riferimento che rimane al lettore nei capitoli finali, quando il testo raggiunge l’acme. In definitiva, Corrigan produrrà gli elogi di chi ha già apprezzato Plath e Lessing, ma deluderà le aspettative di chi solitamente si rivolge alla letteratura di consumo, dal momento che l’autrice, una volta assecondato il proprio divertimento, ci forzerà ad alzarci dalla metaforica sedia a rotelle in cui abbiamo deciso di confinarci.
Yuri Sassetti
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