“Nelle mie interviste non metto solo le mie opinioni, metto anche i miei sentimenti. Tutte le mie interviste sono dei drammi. Le vivo con un coinvolgimento anche fisico” Oriana Fallaci
La luce verde sul pontile, al di là della baia, la luce verde di Daisy: il sogno incorruttibile di Gatsby che lampeggia al di là della baia. Un sogno che è anche un patto col diavolo. Il sogno incorruttibile che si nutre anche di corruzione. Quel sogno che sta davanti, che se allunghi la mano quasi lo tocchi, è tuo, Daisy è tua, ma in realtà stava dietro, alle spalle di Gatsby; era già passato. Pura nostalgia. Perdita in una catena di perdite. Teresa Ciabatti in 🔗Donnaregina cerca la luce verde di Peppe Misso, il super boss della camorra napoletana, il fuorilegge, come preferisce definirsi, un uomo quasi ottantenne, sotto protezione, che lei intervista in una località segreta. “Era quella la vita che voleva, la sera nel letto abbracciando Antonietta”, Antonietta Sarno, la moglie, l’ex-prostituta diventata regina, morta ammazzata, regolamento di conti, codice camorristico. La luce verde di Gatsby, per Misso, “il faro di luce sulla statua equestre di Marco Aurelio” e quel figlio maschio che non ha voluto essere maschio. Tutto quello che sembra stare davanti e invece sta sempre dietro: la morte della sorella Agata sotto i bombardamenti, il padre che fugge in Brasile quando lui ha solo sei mesi, e si rifà una nuova vita, la miseria, i vicoli, i bambini che diventano criminali.
“Il puntino rosso, quel puntino rosso, quel puntino sempre più lontano mi è rimasto negli occhi”, scrive Ciabatti. Ma qual è poi il puntino che sta inseguendo davvero la scrittrice?
Donnaregina è uno slargo di Napoli, centro storico, che prende il nome dal monastero di clausura, luogo di leggende. Dei fantasmi delle monache che sono state ammazzate, bruciate, torturate perché erano semplicemente donne, perché facevano le guaritrici (fattucchiere e streghe), perché amavano carnalmente (il diavolo), perché sgravidavano bambini (peccatrici), i bambini di Napoli, tutti i bambini esposti. Ammazzate per tradimento di codici e leggi. Come Antonietta Sarno, la regina del bunker del boss a largo Donnaregina. Antonietta, ammazzata per altri codici e altre leggi, quelle della camorra.
Ragioniamo ancora dei romanzi attraverso le categorie: auto-fiction, non-fiction, reale, finzione. Come se quella fuori sia “realtà”, una forma di realtà assoluta incorruttibile mai contaminata dalla finzione e dall’interpretazione. Vero o falso. Eppure, ogni realtà è vissuta nella misura in cui è oggetto di interazione, scambio, compromesso. Proprio quando diventa finzione (a chi credere?). Si continuano a classificare i romanzi come se si possa distinguere nettamente tra realtà e finzione, come se i sogni che pure sono fisici, chimici, reali siano davvero una scheggia impazzita proveniente da un’altra sfera. Draghi e cavalieri (ma con chi sta dormendo davvero la principessa?, annotava Sylvia Plath a proposito del romanzo di F. Scott Fitzgerald). È una distinzione manichea. Come è manicheo ridurre il discorso attorno ad un romanzo a questo. La narratrice di Donnaregina non è una finta sé, è Teresa Ciabatti. Al diavolo il patto con il lettore, quel patto non scritto secondo cui il lettore non può essere tradito dal suo narratore. A me piace essere continuamente tradita, perdere terra sotto ai piedi. “Il libro sarà un grande tradimento” annuncia a un certo punto della storia Ciabatti e della persona che si muove dietro il personaggio resterà solo un riverbero. A me piace lasciarmi trasportare.
La realtà è una forma di eccesso, non sta nei fatti ma nei nessi arbitrari che ci seducono; è quella cosa che sta tra la verità e la leggenda, pensiero magico, “l’invenzione di qualcun altro”: immaginazione, sospensione, immersione. L’acquaio e il fucile subacqueo che spara dritto al cuore. Un romanzo non è l’opera compiuta ma il materiale di scarto.
Ciabatti si muove sempre, come solo lei sa fare, in quel “sembrare”, quello del suo precedente romanzo, Sembrava bellezza: niente è come sembra e così sia. Cosa c’è allora di più sconvolgente che scrivere: Misso il superboss della camorra napoletana è anche tutto il resto, anche quella umanità di mille colori che non si cancella neppure quando commettiamo o commissioniamo i crimini peggiori. Perché l’umanità è una “carta sporca” e noi a volerla ripulire. Cosa c’è allora di più sconvolgente che fare di un camorrista il protagonista di questo romanzo (ma poi è davvero il protagonista)? Cosa c’è di più sconvolgente che mettere in scena una narratrice che non è una maschera: sono io, con i miei cinquant’anni, la vanagloria, il completo arancione, debole e forte. Questa cosa difficile qua è la mia vita. Questa cosa qua è la realtà, vera e falsa, buona e cattiva, meravigliosa e disperata. Questo qui che state leggendo non è non-fiction o auto-fiction, è una cosa incasellabile, perché io le categorie non le soffro, “sono abusiva”.
Poi c’è l’altra luce, quella azzurrina, in cui galleggia Camilla, la figlia della narratrice, che è il riverbero di un’altra luce ancora, quella in cui era immersa Teresa da ragazzina (il luccichio remoto, che sta davanti ma in realtà stava dietro di noi, ricordate Gatsby, Michela Murgia è morta e l’orsacchiotto di pelouche perduto per sempre). Camilla però ora non luccica, soffre, soffre terribilmente, tagli e sangue, reparto di psichiatria e il trolley con i bikini che resta. È questo il puntino luminoso su cui Ciabatti sta allungando la mano: una figlia. Sta davanti, ma sta pure dietro; è lei, figlia, ma sono pure io, madre. Qui c’è il cuore del romanzo. Lampeggia.
È un po’ di tempo che penso alle cose che si ritrovano assieme, cose apparentemente così distanti, fisicamente e culturalmente distanti e sconosciute le une alle altre che si ritrovano dorso a dorso, per caso che poi è solo una forma di necessità. Qualcuno ha scritto a proposito di Donnaregina: geometrie impossibili, parallele che si incrociano. La vita di un boss mafioso e quella lontanissima di una scrittrice affermata. Ma è solo un virtuosismo: le parallele non si incrociano, restano sempre dorso a dorso, la vita di una madre e la vita di una figlia, quando realizzi che in fondo non hai mai potuto controllarla. Mai Ciabatti si avventura a spiegarci il perché del dolore della figlia al di là di una specie di tara genetica matrilineare (che può scadere sempre in una forma di autoassoluzione, quasi allucinazione): sua madre era così (l’elettroshock), lei è stata così (a letto, il buio, lei che non c’è per la figlia), ora Camilla. Perché il dolore è muto, incomunicabile, sta vicino, vicinissimo, sta dentro di te, eppure è un’altra storia, un’altra stella, un’altra luce.
Al tempio shintoista di Fushimi Inari-taisha a Kyoto ho portato un desiderio. L’ho lasciato appeso assieme ad altri desideri portati da altre persone, da altri luoghi ed altri tempi, per altre “vie”, alla fine di altri pellegrinaggi, desideri scritti in tutte le lingue, o nella stessa lingua, su stracci di stoffa annodati come nocche attorno a delle corde, o su tavolette di legno, desideri uguali o diversi portati con sé per non liberarsene mai o per liberarsene finalmente laggiù, dall’altro lato del proprio mondo. Liberarsi di un desiderio, come liberarsi di una colpa (non te ne liberi mai). Desideri appesi come ciondoli, come campane, bandierine, maniche al vento, come vite così terribilmente diverse e lontane ma accomunate da qualcosa, in una coreografia azzardata eppure così armoniosa in quei templi scintoisti che sono un albero tra gli alberi del bosco, le cui soglie sono impercettibili. Desideri legittimi e illegittimi, che respirano e galleggiano protetti da volpi antiche come le pietre. Guardavo e mi chiedevo cosa unisse quei fiocchi e quelle tavolette di legno: forse la mancanza, perché in fondo un desiderio è la confessione della nostra fallibilità, della nostra umanità, noi esseri amputati. Di quello che ci manca, quello che non siamo e che vorremmo essere. Misso avrebbe voluto essere un bambino napoletano in Inghilterra; Ciabatti una buona madre; Camilla una buona figlia.
Certo, come mi suggerisce Annalena Benini nella sua recensione su La review, le cose della vita sono più caotiche dell’atmosfera zen di un tempio shintoista, le cose della vita, scrive Benini, messe insieme incautamente e meravigliosamente da una frase di Ciabatti. “Amo che una protagonista di romanzo contemporaneo venga offerta così in balía dei suoi pensieri, impaurita e desiderosa di essere intrepida”. Al centro esatto del dolore, come Dorothy del Mago di Oz, nel centro esatto del ciclone, continua Benini. Ma nel centro esatto del ciclone è tutto calmo, sopraggiunge la quiete. Le porte della metropolitana di richiudono, e madre e figlia restano così una nell’altra.
Anche mia figlia, dodicenne come Camilla, ha lasciato un desiderio, l’ha lanciato da un ponticello sul fiume Kamo. Forse dentro quel desiderio c’era l’amica stronza, forse c’ero io, forse suo padre, forse tutti i bambini di Napoli che anche io mi porto dentro (materiale genetico di scarto che passa comunque, una specie di nebulosa sensitiva latente), quelli che saltano a scavezzacollo con la pertica, quelli che vanno in villeggiatura nella pozza di fango sotto casa, quelli che rubano i soldi dalla cassa del panificio e la madre gli punzecchia le dita con un ago bagnato nell’alcol, perché non si ruba, quelli che giocano con il figlio del macellaio, che è il camorrista del quartiere, quelli che hanno sfiorato il male, dorso a dorso, ma che hanno scelto sempre il bene. Non importa cosa ci fosse in quel fiore che ha lanciato dal ponticello, però le ho detto che quel desiderio era possente perché la corrente lo avrebbe portato lentamente per i canali della città, fino al mare, per chilometri, lentamente, si sarebbe arrestato e avrebbe continuato a scorrere, sarebbe arrivato all’oceano. Anche Camilla.
Silvia Acierno
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