Le avanguardie sono roba vecchia, così primonovecentesche, modernariato. È tempo di parlare di Neoavanguardia, e quando si parla di Neoavanguardia un nome si impone: Edoardo Sanguineti (Genova, 1930-2010). Certo, la Neoavanguardia, fenomeno intellettuale-artistico-culturale fiorito negli anni Sessanta, fu un movimento di gruppo, plurale nelle intenzioni e nelle realizzazioni. Ma un nome incarna benissimo questo momento della storia culturale e letteraria italiana, ed è quello di Sanguineti.

Poeta, critico, professore, traduttore, romanziere, Sanguineti non si può dire che non fosse un poliedrico sperimentatore. A dire il vero, però, negli anni Cinquanta e Sessanta un po’ tutti i poeti italiani sperimentano: sono anni di diversificata, tuttavia comune, tendenza verso la ricerca letteraria. Ma la Neoavanguardia non vuole solo sperimentare, la Neoavanguardia vuole proporre nuove forme che mettano in discussione l’idea stessa di scrittura e poesia ereditata dalla tradizione.

Nel 1956 esce Laborintus, primo libro di Sanguineti, che poi, secondo una modalità editoriale per “agglutinamenti” successivi tipica dell’autore, confluirà nella sua raccolta di poesia propriamente neoavanguardistica: Triperuno. Positivamente o negativamente, Laborintus non lascia indifferenti i lettori. C’è qualcosa che non convince. Il libro descrive un viaggio infernale in una palude alchemica e lunare, in cui personaggi polimorfi si susseguono. Allegoricamente (più o meno), si tratta del viaggio di un soggetto alienato nel mondo neocapitalistico. Ed è su questo piano che la poesia di Sanguineti viene accusata di riprodurre, come uno specchio deformante, il caos di questo mondo, minando così alla base le funzioni elementari della poesia: comunicare qualcosa. È difficile, leggendo di primo acchito un testo di Laborintus (20), non pensarla così.

«anche der J. d. Gr. Sc. das grosse Jot d.h. quod tantum hélas scire licet
‘el marrano’ caso mai anche dice (mi dice) non riuscirai (sic) a capire
Laszo quanto (io) ti sia legato la sorpresa oggi anche di una insospettabile
equivalenza et il faut faire Laszo e riproduttrice des enfants femminile
in anticipazione (elle s’étend) immensa (sans limite) come l’orizzonte
del mondo e veracemente egli è un mondo mais autrement che si apre senza
fine nello spazio qu’à la méthode che senza fine ha sviluppo ordinaire
nel tempo un mondo où le seule est tracée et je l’aime! con una qualunque
disposizione la forme du monde spaziale et j’en ai per esempio
des enfants! et de la grande espérance dapprima una infeconda caligine
dove ogni oggetto e per me anche oggetti reali oscuro indeterminato sono là!
in questo nebuloso orizzonte e sono portatori assolutamente incapace
di una determinazione totale di determinazioni et ces souvenirs forment
une chaîne! spaziale
                     et je l’aime
mais au milieu de ma félicité (M.DC.XCI!) je suis troublé quelquefois
par le ressouvenir que l’Eglise Romaine n’approuve peut-être pas tout cela!»

Insomma, potremmo dire che se è vero che Sanguineti riproduce il caos dell’inferno capitalistico, Laborintus sta alla poesia un po’ come la registrazione del rumore sta alla musica. Solo che le cose non stanno così. Questa poesia, come le altre della raccolta, non sta assemblando lacerti casuali di conversazioni, brani di libri e parole in libertà in una sorta di esperanto incomprensibile. Non è un collage, ma è – se si resta ancora nell’analogia musicale – un contrappunto di linee melodiche diverse, ciascuna espressa in una lingua diversa. È una musica atonale, ogni linea è su una “scala” linguistica diversa, in cui più voci si rincorrono. Isolate le varie linee, le voci si possono ricostruire e leggere nel loro intrecciarsi simultaneamente. Da una parte la voce italiana, dall’altra la voce francese, che riproduce alcuni passaggi di un’opera satirica di fine Seicento, il Comte de Gabalis, con citazioni risemantizzate in questo intarsio plurilinguista. Insomma, le varie linee melodiche si intessono per cercare di costruire un linguaggio poetico tridimensionale che sfida il lettore e le leggi della comunicazione scritta. Una formula alchemica attraverso cui l’io (diciamo l’io per semplificare) nonché lo scrittore cercano eversivamente di decostruire l’ordine – in questo caso, abbattendo uno dei suoi più potenti simboli, la Chiesa Romana (l’«Eglise Romaine» nel testo).

Appurato che non si tratta di una poesia che si rifiuta di comunicare, bensì di una poesia che sfida la comunicazione, resta pur vero che il frutto di questo cortocircuito è davvero difficile da cogliere con gli strumenti (la parafrasi? il commento esplicativo?) dell’esegesi poetica tradizionale. Si farebbe però un torto a Sanguineti se lo si relegasse al rango di mero poeta neoavanguardista, autore di versi (quasi) incomprensibili. La curiosità, l’attrazione per tutte le strategie in grado di scardinare la griglia comunicativa tradizionale, sono una caratteristica costante e una spinta creativa che attraversano trasversalmente la scrittura di Sanguineti. In tutta la sua poesia, la lingua, le forme poetiche e il gioco verbale sono tenacemente messi alla prova. Se la tensione verso la sperimentazione verbale resta, negli anni successivi la scrittura di Sanguineti evolve, attraversando diverse fasi. Ma tutto sommato il poeta abbandona il progetto di eversione comunicativa che abbiamo osservato in Laborintus. Due sono le direzioni prese: inizialmente la scelta di seguire una linea autobiografica e autoironica; e in seguito una linea ludica, costellata da raccolte costruite attorno a vincoli formali, quasi à la manière dell’Oulipo.

Alcune delle più belle poesie (o almeno, più intellegibili) di Sanguineti si situano lungo questi filoni, e specialmente in quello elegiaco e autobiografico. Postkarten (1978) è uno dei migliori esempi di questo nuovo Sanguineti. Si tratta di una serie di poesie sotto forma di cartoline postali, inviate dal personaggio che dice io (in cui si intravede l’autoritratto grottescamente esacerbato dell’autore) alla propria famiglia durante una serie di viaggi. Si alternano frammenti di vita, di nevrosi, di angoscia, ma anche di lotta, di scambio intellettuale e anche solo di ironico divertimento: dietro il neo-avanguardista si nascondeva anche un neo-crepuscolare.

«Postkarten 62
la poesia è ancora praticabile, probabilmente: io me la pratico, lo vedi, 
in ogni caso, praticamente così:                                  
                                 con questa poesia molto quotidiana (e molto 
da quotidiano, proprio): e questa poesia molto giornaliera (e molto giornalistica, 
anche, se vuoi) è più chiara, poi, di quell’articolo di Fortini che chiacchiera 
della chiarezza degli articoli dei giornali, se hai visto il “Corriere” dell’11, 
lunedì, e che ha per titolo, appunto, “perché è difficile scrivere chiaro” (e che 
dice persino, ahimè, che la chiarezza è come la verginità e la gioventù): (e che 
bisogna perderle, pare, per trovarle): (e che io dico, guarda, che è molto meglio 
perderle che trovarle, in fondo):                                  
                                  perché io sogno di sprofondarmi a testa prima, 
ormai, dentro un assoluto anonimato (oggi che ho perduto tutto, o quasi): (e 
questo significa, credo, nel profondo, che io sogno assolutamente di morire, 
questa volta lo sai):                               
                      oggi il mio stile è non avere stile.»

Andrea Bongiorno