Per molti aspetti quella di Elio Vittorini è una scrittura nomade, in movimento. Si muove lungo tracciati differenti, intrecciandone istanze e finalità, oltrepassando e continuamente ridefinendo i confini che separano e uniscono gli spazi della scrittura creativa, della critica letteraria, del giornalismo d’inchiesta e dell’analisi sociopolitica. Ma è anche una scrittura che sa ritornare sui propri passi: riallaccia i fili spezzati, intercetta percorsi lasciati in sospeso, ricompone le tessere di un domino letterario, per aprire nuovi percorsi di significato. Una scrittura che si fa, à la manière de Borges, riscrittura: palinsesto testuale da cui ripartire a ogni nuovo impulso creativo, a ogni nuova sollecitazione storica e culturale.

Gli effetti di questa erranza creativa sono molteplici. Basta pensare all’ingente numero di testi interrotti che compongono una sezione considerevole dell’opera vittoriniana: Giochi di ragazzi (1934-1936), Erica e i suoi fratelli (1936), Il Sempione strizza l’occhio al Frejus (1946), La garibaldina (1956), Le città del mondo (1969, uscito postumo). Allo stesso modo, travagliata è la vicenda editoriale che interessa alcune delle opere principali dell’autore, come nel caso de Il garofano rosso, iniziato nel 1933 e pubblicato soltanto nel 1948 dopo l’avvicendarsi di fasi alterne di stesura, interruzioni e revisioni d’autore. Ancora riconducibili a questo paradigma compositivo sono le costanti e le invarianti stilistico-tematiche che attraversano l’intero arco della produzione letteraria di Vittorini: temi, situazioni, tic stilistici, personaggi che trasmigrano da un testo all’altro, in forma talvolta camuffata, talaltra mediante veri e propri spostamenti di materiale scrittorio.

Uno dei testi che meglio esemplifica la dimensione composita e progettuale (il suo essere prima di tutto definizione di una prospettiva di lavoro in fieri, piuttosto che un approdo letterario)della scrittura vittoriniana è l’opera postuma Le città del mondo. Scritta negli anni Cinquanta, nel tempo che precede e accompagna il silenzio in cui lo scrittore si rifugerà, durante gli ultimi anni della sua vita. Questo testo intercetta due elementi tematici cardinali nel sistema letterario dell’autore: il tema del viaggio (anche qui, in un’altra declinazione, una scrittura nomade) e il recupero di un’umanità arcaica e archetipica, che Vittorini identifica, con una brillante analogia, nel grande ovest delle sue letture americane e nelle campagne della sua Sicilia natia.

In realtà, un primo nucleo embrionale de Le città del mondo è rintracciabile in un brevissimo racconto omonimo, pubblicato su rivista nel 1941. Il racconto, ambientato al fianco di una muraglia in costruzione, in una zona racchiusa tra le montagne e il mare, è incentrato nella descrizione di una scena serale, dove un gruppo di muratori, seduti a riposare dopo una giornata di lavoro, guardano accendersi all’orizzonte i lumi di diverse città. Nel mistero della notte che confonde i colori e gli spazi, sostenuti dal potere di una fervida immaginazione, gli uomini indicano e nominano quei vari lumi: Alicante, Sydney, Stoccolma, Manilla, San Francisco, Livorno, Acapulco…

«“Arquata Scrivia!” il piccolino gridò.
“Che cos’è questa?” uno di noi gli chiese.
“Io vi sono stato” disse il piccolino. “Era in Persia.”
Tremava, giovane d’anni, e sotto a noi passavano barche morte. Parlò il vecchio.
“Io sono stato a Babilonia” disse.
[…]
“Ma” il lungo disse “ora è perduta.”
“Tutto è perduto” rispose il vecchio.
“È sotto le sabbie” disse il lungo. “Morta da secoli.”
Il vecchio sospirò.
“Oh sì!” rispose. “Ed era bella! Quanti lumi” disse “aveva!” Non parlammo più» (p. 876).

La stessa scena si ripresenta, di poco variata, nell’omonimo romanzo degli anni Cinquanta, benché in questo caso i segni che indicano la via per le città non siano più lumi terresti, ma astri che punteggiano la notte: «Con una mano sotto la nuca e la faccia per aria, egli portò lentamente lo sguardo dalle balze dei fiumi fino al cielo e alle prime stelle più in alto, e disse: “Adelaide.” […] “Samarcanda.” […] “Tucuman.” […] “Filadelfia.” Prendeva tempo tra un nome e l’altro. Pronunciatone uno sembrava aspettare che un altro si formasse. Come una goccia che deve formarsi per poter cadere. Disse Manilla. Disse Elsinore» (p. 428).

Al di là di questa ricorrenza testuale, il romanzo Le città del mondo si espande notevolmente rispetto al veloce bozzetto del precedente racconto. La narrazione è ambientata in una Sicilia ancestrale, abitata da figure archetipiche e dominata da una natura mitica, a tratti ferina, a tratti arcadica: «vi fu in Sicilia un pastore che entrò col figlio e una cinquantina di pecore, più un cane e un asino, nel territorio della città di Scicli. Questa sorge all’incrocio di tre valloni, con case da ogni parte su per i dirupi, una grande piazza in basso a cavallo del letto d’una fiumara, e antichi fabbricati ecclesiastici che coronano in più punti, come acropoli barocche, il semicerchio delle altitudini» (p. 373). Schizzi che tratteggiano una Sicilia al di fuori della storia, che soltanto fugaci allusioni (la presenza di un’automobile, di un transatlantico per l’America) collocano in un tempo non troppo lontano da quello in cui Vittorini sta scrivendo.

A popolare questo scenario senza tempo si inseriscono le vicende intrecciate di quattro coppie di personaggi: due pastori che muovono il loro gregge per le balze e le valli dell’entroterra siculo, vendendo ricotte e pellami; Matteo e Nardo, il primo padre, scrittore e sognatore, con il figlio che lo segue con la curiosità dei cinque anni, in cerca di una città dove vivere; due novelli sposi, Michela e Gioacchino, anche loro in viaggio nel cuore della Sicilia, verso il paese natale di lui, tra gelosie e inquietudini. ainfine, due donne, incontratesi casualmente nell’intrico di un bosco, l’Odeida, navigata prostituta di cinquant’anni che gira le città e i paesi della Sicilia per dare sollievo alle fatiche dei contadini, e Rea Silvia, giovane ventunenne scappata da casa per conoscere il mondo.

Figure esemplari, personaggi che incarnano alcune delle grandi questioni dell’essere umano: il conflitto generazionale (padri che “uccidono” i figli, figli che “uccidono” i padri), l’apprendistato amoroso (le sue turbe e le sue piccole meschinità), la paura e il desiderio di trovarsi un posto nel mondo… «A un incrocio di quelle strade tra i muri degli aranceti c’era una lampadina ed egli si fermò a sfogliare il libro sotto la sua luce. Lo trovò pieno di figure. Viaggio intorno al mondo diceva il titolo. […] “Non v’è dubbio che hai anche tu i tuoi diritti. Ma dove? Indosso non ti si vedono. Cercali, conquistali, falli valere, e potrai ottenere che la figlia stessa del re ti sia data in premio”» (p. 521).

La letteratura getta la sua sonda nell’adito di questi snodi esistenziali, e subito si sposta di lato, diverge, si allontana. Si fa scrittura in movimento: scrittura nomade. Vittorini traccia il campo della sua ricerca letteraria, lo popola di piccole schegge di luce, sguardi, scenette, come i lumi che segnano a dito i nomi delle città, reali o immaginarie che siano. E poi subito si ricaccia nel silenzio di una voce sospesa: dove Le città del mondo (che poi non sono altro che le città della Sicilia della sua infanzia), si frastagliano all’interno di un oceano di possibilità letterarie, in un calcolo combinatorio che sembra quasi prefigurare quelle che diventeranno Le città invisibili dell’amico e collega Italo Calvino.

[Edizione di riferimento: E. Vittorini, Le opere narrative. Voll. I-II, a cura di M. Corti, Mondadori “I Meridiani”, Milano 1974]

Andrea Borio

Leggi la presentazione di ’900 italiano a cura di Enrico Bormida e Andrea Borio