Una stanza buia nel Connecticut, sudori notturni per i pensieri ansiosi delle quattro del mattino di una giornata che deve ancora cominciare e che forse segnerà gli ultimi momenti di libertà di Harvey. La scrittrice Emma Cline nel suo libro Harvey racconta le ultime ventiquattro ore di Harvey Weinstein, il celebre caso di cronaca che diventa un racconto in cui l’autrice allude e inventa le ultime scene della sua vita prima della fine. Se occorresse un titolo da affiancare alle prime pagine sarebbe adatto  “l’inizio dell’inizio della fine”.

In questo libro Harvey non è l’orco condannato, non è lo stupratore, non è l’uomo vergognoso che ha occupato per mesi le prime pagine dei giornali. È soltanto un uomo, come tanti altri, che fa i conti con se stesso e cerca di autoconvincersi della sua innocenza. Cosa aveva fatto di male? Harvey era soltanto un uomo, raccontato dalla Cline nella sua vita quotidiana, tra le mura domestiche, con la sua acqua Fuji sul comodino accanto al letto, i calzini rossi della stessa bottega dove li comprava il papa, il suo maglioncino Loro Piana e l’ascensore in casa.

Un uomo che aveva avuto tutto e che riteneva impensabile la possibilità di ritrovarsi a perdere tutto ciò che aveva costruito, da solo.

Sono novanta pagine scorrevoli, la scrittura della Cline trasporta all’interno dell’abitazione e a piccoli passi riesce a mostrare le fragilità e la meschinità quasi naturale di un uomo molto solo, completamente smarrito. Harvey in fondo sta già scontando la sua pena, il braccialetto alla caviglia sopra i suoi calzini di filo di scozia, gli ricorda che non è più libero e che forse ha già perso.

“Chi avrebbe mai pensato che Harvey dovesse stare in carcere? Era talmente inverosimile”.

La scrittrice ne risalta l’autocommiserazione, ma anche il tentativo di autoconsolarsi, Harvey è davanti al suo computer e si costringe a cercare su google il proprio nome per poter trovare i commenti delle persone comuni. Cosa pensano davvero di lui? Potrebbe sembrare una specie di masochismo puro, in realtà si impegna a trovare qualche commento gentile. Qualcuno che lo giustifichi almeno, un messaggio di speranza da portare con sé per le ultime 24 ore prima del verdetto.

Emma Cline vuole raccogliere il punto di vista del predatore, non della vittima. Vuole immedesimarsi per capire cosa pensi di sé quella persona. In un’intervista al The Guardian ha dichiarato di essere interessata all’idea che questi uomini hanno di sé e al fascino che esercitano nella cultura. Non vuole giustificarli e parlare di loro non significa di certo stare dalla loro parte. L’autrice non prende posizione, accompagna il lettore nei diversi stadi emotivi che il protagonista attraversa. Sta al lettore giudicare, l’autrice si limita ad osservare.

Il protagonista ama il potere e ha bisogno di sentirsi importante. “La gente se ne stava a casa a ingurgitare quello che le davi, si sparava ore e ore di televisione. Erano loro a fare cultura, ne era sempre stato convinto: tutto scendeva goccia a goccia da lui, da quelli come lui, dalle scelte compiute in una certa stanza di un certo ufficio a Manhattan, scelte che plasmavano il discorso”. L’Harvey della Cline aspetta la sentenza convinto della propria assoluzione, convinto di aver fatto qualcosa che in realtà fanno tutti, anzi fanno anche peggio, giudica il Polanski che aveva stuprato una minorenne, lui con le minorenni non ci ha mai provato.

C’è la scena del vicino che viene scambiato da Harvey per Don DeLillo e convinto di ciò inizia a sognare la sua prossima produzione, Rumore bianco, il suo capolavoro che lo rimetterà in gioco. È forse un modo per mostrare il suo smarrimento attraverso l’ossessione di poter continuare a fare piani per il futuro, perché ha ancora un futuro, c’è ancora molto tempo e ha tante cose da fare. “Era convinto, in tutta sincerità, che l’avrebbero prosciolto. Come poteva essere diversamente? Era l’America, quella. Forse c’era stato un momento, un giorno, due, in cui tutto era cominciato, in cui aveva creduto che fosse arrivata, eccola lì, la fine della strada”.

È alla fine della giornata, dopo i suoi pasti serviti da Gabe, la tavola imbandita di dolci e sorbetti di tutti i gusti, la visita della figlia con la nipote, l’infusione per il dolore alla schiena che gli aveva regalato piccoli momenti di estasi, è con lo scendere della notte che Harvey inizia a mostrarsi fragile. Aveva imparato che a nessuno, fuorché a se stessi, importa davvero quello ti succede. E spaventato si ritrova a piangere, ad avere per la prima volta paura, quella sensazione che non aveva mai provato prima e che lo faceva sentire immobile, impotente. E nessuno era rimasto a dispiacersi per lui. Harvey è un uomo solo. Ecco che cominciano ad accendersi le luci, è il momento in cui al cinema è appena finito il film, calpesti i popcorn sotto ai piedi, raccogli il cappotto e provi la tristezza di chi sa che, finito il film, si torna alla brutta realtà che ti aspetta. Forse non c’è più tempo.

Giusy Esposito

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