Dopo la lunga, torrida, estate raccontata ne La vita felice, pubblicato quando avevo raggiunto la soglia dei quarantacinque anni (lo annoto qui solo perché l’idea di soglia potrà tornarmi utile), alla fine del 2016, quando la mia mente si era già in parte liberata dalle figure di Elia e di suo padre, mi ritrovai a immaginare un paesaggio invernale, immersa fino al collo nell’altra faccia di quella medaglia estiva in cui, scrivendo di Elia, avevo nuotato così a lungo.

Cominciai a vedere una scena notturna, ambientata in una valle stretta – la stessa di La vita felice – in un paese immaginario che in seguito avrei chiamato Cave. Neve dappertutto, poi una luce fioca che, nel buio, splendeva appena sulla neve, illuminando la distanza tra un portico e un garage e quella, più importante, tra una madre e un figlio.

Nei mesi precedenti ero già stata visitata, diciamo così, dall’ombra del ragazzo, l’ombra che avrebbe seguito i personaggi di quello che a quei tempi non era altro che l’abbozzo di un nuovo romanzo. Ma è stato con la neve, con quella scena invernale e notturna, che tutto è incominciato per davvero.

Questo per dire che Solo un ragazzo è nato con l’inverno.

L’origine di quell’immagine è in parte irraggiungibile, come per ogni immagine, ogni scintilla di una storia, ma in parte mi è ben nota. Ha a che fare con un romanzo breve – potremmo anche chiamarlo un lungo racconto – che si è annidato nella mia memoria moltissimi anni fa, riverberando poi nel tempo che è seguito. Un romanzo che ha più di cent’anni – è stato pubblicato nel 1911 – ma che conserva intatta la sua necessità, la sobrietà delle visioni più intense e l’autenticità di quella che chiamiamo “la letteratura”. Vi sto parlando di Ethan Frome.

Sì, perché è proprio in un paesaggio bianco, innevato, in un inverno terribilmente rigido, che appare davanti ai nostri occhi fin dalla prima pagina il piccolo villaggio di Starkfield (tradotto: un campo spoglio, desolato), Massachusetts, e nel suo centro, davanti all’ufficio postale, intento a scendere dal proprio calesse e poi a camminare zoppicando fino a raggiungere il colonnato bianco dell’ufficio postale, uno dei giganti più misteriosi e più indimenticabili (anni prima di Jay Gatsby) della letteratura americana. Quell’uomo porta il nome di Ethan Frome: è un personaggio – e quindi una persona, perché per quanto mi riguarda non c’è differenza – che da Starkfield, dalla sua fattoria isolata in mezzo ai campi spogli, schiacciati dalla neve, immaginati da Edith Wharton, ha attraversato tempo e spazio, è arrivato fino a noi e senza dubbio ci supererà.

Riassumere la trama di un romanzo può essere utile, certo, ma è sempre poca cosa (a volte è il tiepido rifugio per chi non sa che dire). Se fosse solo questo, Ethan Frome sarebbe un triangolo amoroso tra le fine dell’800 e i primi del ’900 in un villaggio sperduto del New England, tra le Berkshire Hills, la storia di un amore impossibile tra due persone semplici, un amore che per definizione non può che finir male e infatti finisce male. Ma quanto sarebbe spento e parziale, questo riassunto. Quanto lontano sarebbe dalla profondità vertiginosa di poco più di 100 pagine scritte da questa donna newyorkese perennemente in viaggio, Edith Wharton, che avrebbe pubblicato nel 1920 un altro romanzo importantissimo, L’età dell’innocenza (titolo biblico, profetico, che ben racconta molta letteratura americana, ancora oggi).

Ma che cos’è, allora, Ethan Frome, spingendosi al di là di un piccolo riassunto? Perché questo mio viaggio negli Stati Uniti comincia proprio a Starkfield, minuscolo villaggio immaginario del New England, tra tutti i posti che avrei potuto scegliere? E chi è davvero Ethan, povero proprietario di una segheria, sposato con Zenobia detta Zeena, malata cronica dal viso spigoloso, forse crudele, forse infelice o tutte e due le cose, ma innamorato della più giovane e ancora sorridente Mattie, finita a vivere con loro dopo essere rimasta sola al mondo? Mattie Silver, la ragazza d’argento, che nel romanzo indossa una sciarpa color rosso ciliegia e che una sera, approfittando dell’assenza di Zeena, decide di usare un piatto rosso, di proprietà di Zeena, su cui servire a Ethan sottaceti, per la loro prima e ultima cena, l’unica possibilità che avranno mai di stare un po’ da soli.

A proposito, che fine fa quel piatto?

Provate a indovinare…

Il gatto urtò il piatto dei sottaceti che cadde a terra con uno schianto. Di colpo Mattie balzò dalla sedia, inginocchiandosi vicino ai frammenti. “Oh, Ethan, Ethan… è andato in pezzi!”.

I sogni di Ethan si infrangono come quel piatto rosso (per colpa di un gatto, poi!), e questo infrangersi è qualcosa che noi riconosciamo, qualcosa che risuona dentro le nostre vite. Possiamo provare a incollare i pezzi di tutti i sogni infranti, certo, come vorrebbe fare lui, ma a cosa servirebbe? Eppure siamo sfiorati dall’idea, dalla speranza, che un po’ di colla basti. Meglio di niente, ci diciamo.

È questo piatto rotto a contenere in sé tutto il romanzo.

La storia di Ethan Frome è la storia del mistero dei sogni (il mistero di cui la settimana scorsa vi parlavo), la storia della loro persistenza, della loro commovente fragilità e delle loro conseguenze: quel che vorremmo fare di noi stessi, quel che potremmo fare se solo ci provassimo davvero (“Oh, Ethan, cosa pensi di fare?”), quel che vorremmo essere. Poter ricominciare, oltrepassando una soglia che pare invalicabile, in questo caso un matrimonio infelice. Raggiungere la Florida con Mattie, per esempio, lasciandosi alle spalle Starkfield, la chiesa congregazionalista, le colline, i campi, i boschi e tutta quella neve che imprigiona, quel freddo che mortifica, quei lunghi inverni. Ma nello stesso tempo questo romanzo, questo racconto lungo, è qualcos’altro ancora. È il grande e imperscrutabile mistero di ciascuno di noi, dal primo all’ultimo – chi siamo veramente? E chi può dire di conoscere davvero qualcun altro? Cosa si nasconde nei nostri cuori? – quel mistero che esploderà con Gatsby, ritornerà con Stoner, sarà rifratto in tutti i personaggi carveriani e, prima ancora, nel venditore di bibbie e nella ragazza con la gamba di legno di uno dei racconti più belli di Flannery O’Connor, e che sarà molto più tardi negli occhi di Elizabeth Strout.

È troppo grande, il mondo, in quell’enorme spazio americano. C’è sempre una distanza, una separazione (la fattoria isolata, in questo caso, lontana dal villaggio). C’è sempre uno spazio vuoto, tra noi e gli altri, tra me e te, lo spazio vuoto della domanda: “Tu chi sei?”, che forse solo la letteratura può colmare.

Questa storia l’ho ricostruita pezzetto per pezzetto dai racconti di diverse persone, sebbene, come accade di norma in simili casi, da ogni bocca uscisse in modo diverso.

E poi c’è un’altra cosa, l’ultima di cui vorrei parlarvi, una cosa molto importante per me, che mi riporta alla mia valle immaginaria, quella di cui vi dicevo all’inizio.

Si tratta del peso e del significato della terra, della sua centralità in così tanta letteratura americana (peso e significato rappresentati qui da questo piccolo villaggio). La terra, il paesaggio. La contea, le strade, le colline, le montagne. È la tensione irriducibile tra noi e il posto in cui viviamo, il modo in cui questo ci definisce, il modo in cui gli apparteniamo, volenti o nolenti, e quello che facciamo per provare a sfuggirgli – come con il destino, in fondo. Cosa saremmo, senza la nostra terra? Ma che saremmo, d’altra parte, se non provassimo a lasciarla, se non sognassimo di farlo, almeno una volta? Cosa saremmo, insomma, senza la vita che ci è data, ma che saremmo se non provassimo a cambiarla?

Ecco la tensione irriducibile che ci attraversa tutti, sempre.

Le storie accadono nei luoghi, e questo lo sappiamo. Solo che, detto così, non basta: è troppo poco. Il punto è che le storie sono i luoghi, e i luoghi ci assomigliano – o noi assomigliamo loro – ci mantengono vivi, sono la nostra casa, le nostre radici, però dall’altro lato tendono a imprigionarci. Viviamo dentro un paradosso, ed Ethan Frome arriva a ricordarcelo, ricorda a tutti noi la nostra umana condizione, e non si tratta di un dettaglio.

Qua e là una fattoria spiccava lontana tra i campi, muta e fredda come una tomba. La notte era così silenziosa che sentivano la neve scricchiolare sotto i loro piedi.

Stavano fermi nell’ombra degli abeti, e un mondo vuoto scintillava vasto e grigio intorno a loro sotto le stelle.

Perciò restiamo lì con lui, a Starkfield, e abbiamo l’impressione di aver visto noi stessi e i nostri personali inverni (i nostri piatti rotti) dentro quest’uomo zoppicante, quest’uomo qualunque ma che non è qualunque, perché porta con sé una storia, come me, come voi. Quest’uomo che una notte, quand’era ancora giovane, insieme a Mattie Silver, la ragazza d’argento – l’incarnazione del suo sogno – su uno slittino è scivolato giù per una collina innevata, in una corsa che condensa tutta l’ambiguità, la forza e la dolcezza, la spinta vitale, i fallimenti e le speranze, l’illusione e la disperazione del nostro stare al mondo.

Ecco da dove proviene la mia scena invernale, infinitamente più piccola, la scena che avevo in testa a partire dalla fine del 2016. Dalla discesa su quello slittino. Ecco da dove viene, almeno in parte, la neve illuminata da quella luce accesa sotto il portico, in un paese immaginario che ora si chiama Cave, nell’istante in cui una madre, Sara, rivede dopo vent’anni il figlio perduto (un sogno, una visione?). Viene da quell’inverno freddissimo e lontano di Edith Wharton – che scrisse dell’età dell’innocenza, che scrisse dell’America – in cui a un certo punto, anche se solo per un attimo, spicca nel bianco della neve e del ghiaccio una delicata sciarpa color rosso ciliegia.

Non è abbastanza, è vero (non è mai abbastanza) ma è quello che ci è dato. Sono le nostre carte.

Piccola nota a margine.

Non so se ricordate che una delle città invisibili di Calvino si chiama Zenobia. Sentite come la raccontava lui:

È inutile stabilire se Zenobia sia da classificare tra le città felici o tra quelle infelici. Non è in queste due specie che ha senso dividere la città, ma in quelle due: quelle che continuano attraverso gli anni e le mutazioni a dare la loro forma ai desideri e quelle in cui i desideri riescono o riescono a cancellare la città o ne sono cancellati.

Chissà cosa ne penserebbe Ethan. Forse direbbe che non si tratta di Zenobia, e che Calvino si è sbagliato nel nominare la sua città invisibile. Forse direbbe: “Ma questo è il mio villaggio!”. Il mondo intero in fondo, aggiungo io, è Starkfield, Massachusetts. Non possiamo evitare l’inverno. Speriamo solo che ritorni l’estate.

Elena Varvello