Non siamo più abituati agli albi di fotografie in bianco e nero, quelli che pure tutti abbiamo trovato in casa, tramandati dai nonni o i genitori. Ci risultano oggi come oggetti estranei; hanno gli angolini staccati, le foto in giro dietro alle veline che dovrebbero proteggerle ci cadono sui piedi, mentre li apriamo. Ritraggono persone che spesso neppure abbiamo conosciuto, parenti alla lontana, o deceduti prima della nostra nascita, ma anche vite ignote di coloro che ci hanno generato, cresciuto: i genitori, i cugini, gli amici di famiglia. Istanti di passato remoto, che, in qualche modo, hanno plasmato il qui e ora, più o meno marcatamente.

Il titolo scelto dall’autrice per il suo esordio narrativo – esordio coincidente con quello in Italia del marchio Ischire che la pubblica – richiama immediatamente il mondo lontano e segreto delle foto cartacee, oggi sostituite quasi del tutto dagli scatti multipli che conserviamo nelle memorie informatiche.

Sono solo tre i personaggi principali della storia, una storia come tante, di famiglie del Novecento, padre madre e un figlio unico nella Germania postbellica. Solo che qui protagonisti non sono i vincitori, o i perseguitati, ma è gente comune, che si è trovata a combatterla la guerra, senza potersi chiedere da che parte stare. Gli altri personaggi – nonni, amici, amanti, incontri della vita quotidiana – restano nella dimensione della fotografia cartacea: accompagnano, interagiscono, ma non sono a fuoco. Perché nel fuoco ci sono i sentimenti, i risentimenti, le paure, gli errori, le inquietudini che le tre voci, in un incrocio di monologhi in prima persona, ci comunicano, quando oramai gli eventi non possono essere cambiati, ma certamente possono essere analizzati nella propria autocoscienza.

Siamo al capezzale di Julius, il figlio pilota di aerei, appeso tra la vita e la morte dopo un incidente, nel 1996. Anche il padre Erik è stato sugli aerei, durante la guerra, combattuta dalla parte della Luftwaffe. La madre porta il nome di Anna Maria, pur raccontando una storia tutta tedesca.

Sono realtà famigliari come tutte quelle che dal ’45 in poi hanno vissuto sulle schegge da cui è partita la ricostruzione, affrontata con il peso di una colpa schiacciante, eppure portata a compimento come il nido della formica, grano su grano, pagliuzza su pagliuzza, fino al ritorno del benessere e della modernità. Ma anche della dignità, che si concretizza nel romanzo con la figura di Willy Brandt, il cancelliere che ammette le colpe, che si inginocchia.

L’amore tra Erik e Anna Maria è finito, Julius è stato conteso, prima affidato al padre quando la madre lascia la casa per seguire la sua voglia di libertà, autodeterminazione, voglia che non sembra poter convivere con la presenza del marito. Nonostante la precisa volontà di dissociarsi da un ménage familiare che vive come opprimente, Anna Maria esperisce il distacco dal figlio come un’amputazione.

Tutti e tre – Julius forse in una dimensione tra vita e morte che ci fa ripercorrere il vissuto tutto d’un fiato, come un filo che tiene legati all’esistenza – raccontano il proprio punto di vista, che non è guidato dalla ratio ma dal sentimento. I linguaggi usati da Fundarò per ciascuna voce narrante sono studiati in modo da costituire un metro preciso della memoria e dell’emozione del personaggio di fronte ai fatti della propria vita. La stessa autrice rivela di aver privilegiato la prima persona “per non avere un piglio perentorio, che dà sentenze”.

Mentre Erik, il padre, ci lascia la sensazione di animo libero, non giudice, poetico e aperto alla comprensione, portato all’accettazione delle inquietudini della moglie e quindi capace di concederle la libertà, Anna Maria ci appare come l’animo tormentato, afflitto da complessi di colpa e da sensi di inadeguatezza che albergano come sempre nell’infanzia, nella storia di famiglie sfilacciate da diaspore belliche.

L’animo aperto di Julius, figlio capace in primis di amare, e solo dopo di farsi le dovute domande su una storia famigliare che lo ha visto al centro di incomprensioni, pare rimanere incontaminato, mentre la capacità di inserimento nelle varie situazioni ambientali e quelle di apprendimento rivelano forse qualcosa delle sue battaglie interiori.

Katia Fundarò, insegnante e pedagoga, ci tiene a sottolineare di essere mossa in primis “dall’interesse narrativo per le peripezie dell’infanzia” e poi dai riferimenti per lei fondamentali lasciati dall’insegnamento di Hans Georg Gadamer, e in particolare da quello che tratta la verità “come comprensione e riflessione pubblica”. I fatti sono attinti dal mémoire famigliare del marito.

Che il libro sia stato proposto per il Premio Strega da Riccardo Cavallero, ci conferma come il panorama del contest più illustre d’Italia stia cambiando, aprendosi non solo al debutto di nuove voci e di etichette indipendenti, ma sempre più alle forme contemporanee dell’autofiction.

Anna Bertini