Finalista al Premio Strega 2020 e vincitore come Miglior Opera Prima al Premio Bagutta 2020, Febbre di Jonathan Bazzi è una malattia, un disagio, un’incongruenza del corpo. È un giorno qualsiasi di gennaio quando arriva la febbre e non va più via, una febbretta costante che lascia Jonathan impotente davanti alle cose del mondo. Qualsiasi azione diventa un ostacolo, un peso, uscire di casa, cucinare, persino alzarsi dal letto; Jonathan si arrende alla febbre e al suo corso, si lascia trasportare dalla marea che lo rigetta, lo spoglia, e lo trasforma in un altro uomo.

Jonathan consulta diversi medici, fa autodiagnosi, entra in uno stato di paranoia acuta che lo porta ossessivamente a cercare la causa della sua febbre. Fino a quel test che gli rivela la realtà dei fatti: è sieropositivo, ha contratto il virus dell’HIV. Jonathan non si ferma, è quasi sollevato dalla diagnosi ma sente che c’è altro che non va nel suo corpo e ne ricerca il motivo a tutti i costi.

Febbre è uno spostamento dell’asse, il prima e il dopo di una vita, sconquassata dal virus e dalle scelte.

“La mia visione delle cose da un pezzo non è più quella di prima: non sono più quello che stava bene e gestiva – sprecava – il suo tempo, immaginando giornate infinite a disposizione, contando sulla collaborazione muta e scontata del corpo. Malattia e morte non sono più ipotesi virtuali: ho superato il confine.”

Febbre è un’autobiografia. L’autore ci racconta la sua storia personale e familiare, ripercorre la sua esistenza, ridando identità al malato. Spesso ci si dimentica che dietro a una persona malata, ci sia un passato, una vita, un mondo intero. E Bazzi ce lo restituisce attraverso sua madre, suo padre, la sua infanzia, la sua adolescenza, i nonni, i compagni, i primi amori, Rozzano.
Un universo che a mano a mano nel romanzo si costruisce e ci accompagna sino alla rinascita del nostro personaggio – autore.

Col virus voglio farci qualcosa, agire su di lui, modificarlo, non essere inerme, subirlo – mi interessano solo le cose con cui posso imparare. Scriverne, per esempio, sfruttando la mia condizione di privilegiato, di contaminato che non prova vergogna. Rinominare quello che mi è successo, appropriarmene con le parole, per imparare, vedere di più.”

Febbre è un viaggio non solo nel corpo ma anche nella mente. Nella resa, nella battaglia, nello sconquasso della psiche che reagisce a suo modo al cambiamento, all’inevitabilità della condizione di Jonathan. Mente che è retaggio del passato, di quello che è stato vissuto dall’infanzia sino all’età adulta, di ciò che la famiglia ha rotto e ricongiunto. Bazzi si sofferma con attenta cura sulla condizione mentale, sull’importanza del mutar pelle e della risalita verso la luce. Parlarne è giusto. Si può cadere, l’importante è rialzarsi.

Il romanzo è un alternarsi tra presente e passato, un presente legato al 2016 e alla diagnosi, e un passato che dall’infanzia ripercorre tutte le fasi più significative della vita del protagonista. Jonathan ci apre le porte di Rozzano, il Bronx del sud di Milano, il paese degli immigrati, dei tossici, dei delinquenti, dei figli lasciati agli assistenti sociali, delle case popolari. Rozzano che è “il veleno e l’antidoto”, un posto da cui voler scappare ma che allo stesso tempo ti forgia. “Se lo stigma non mi imbriglia poi molto, forse è proprio perché sono cresciuto in quel posto.” Rozzano terra dei fuochi nel quale i genitori di Jonathan si conoscono e mettono al mondo un figlio troppo presto. “Io sono il precipitato imprevisto di una storia durata niente.”

Genitori bambini che rincorrono le loro esistenze e si affannano per trovarne un senso. Un padre affogato nel suo egoismo che promette e non mantiene, una madre che cerca di rimediare ma non cura. Lidia e Biagio, i nonni dalla Campania. Lidia che fa sorridere col suo napoletano, Biagio che è violento e ostile. La violenza ritorna prepotente nel romanzo e spesso viene giustificata dalle donne che la subiscono. Bazzi denuncia e ci invita a riflettere su una condizione che è ancora troppo presente nella nostra quotidianità.

Un quartiere che riversa la sua problematicità nei suoi protagonisti, nella famiglie sgangherate e disastrate. Un quartiere intriso di pregiudizi verso un ragazzo che non è come gli altri, non è standardizzato alla sconfitta e alla solita esistenza di chi resiste a Rozzano. Un omosessuale nella terra dove gli omosessuali devono nascondersi, devono ripetersi “di non essere delle femminucce”. Jonathan si riprende il suo diritto ad essere se stesso, a voler studiare, affrontare la sua balbuzie e i pregiudizi e vivere come meglio crede.

Febbre è amore. Di una madre, di una nonna, di una zia, di un amante. Febbre è l’amore di Marius che resta accanto a Jonathan, nonostante la malattia, nonostante il cambiamento. È una pelle che muta, una fenice che rinasce, Jonathan è consapevole di ciò che c’è stato e sebbene ci sia l’oscurità a richiamarlo, riesce a combattere, a resistere.

Jonathan ci racconta la sua storia con estrema lucidità, con uno stile asciutto, intenso che prende sin dalle prime righe. Due voci assolute che emergono, quella bambina e quella adulta, spietate. Due livelli di linguaggio diversi, due prospettive che poi si fondono, in quello che è il frutto di un lungo percorso tra malattia e vita. Tra sofferenza e resistenza.

Febbre è asimmetria. È discordanza tra esseri viventi, tra familiari e amanti. Tra medico e paziente. Tra mente e corpo. Un esordio potente, brutale, libero da vincoli, diverso. Febbre è perfetto per narrare l’imperfetto dell’esistenza.

Ilaria Amoruso

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