Nel 1999 l’allora redazione di exlibris portò un gruppo di studenti del Liceo Classico Pietro Colletta di Avellino a Venezia alla manifestazione Fondamenta, ideata e diretta dallo scrittore Daniele Del Giudice. Questa è una testimonianza di quella giornata.

Abbiamo partecipato a Venezia all’intera giornata del 5 giugno (1999, ndr) della manifestazione Fondamenta. Due incontri ci hanno colpito più di tutti: quello della scrittrice Assia Djebar e quello dell’attore Marco Paolini.

La scrittrice algerina ha presentato una penetrante indagine da «donna scrittrice del Sud del mediterraneo e del mondo musulmano, ma soprattutto da donna di oggi» sul tema Luoghi nel futuro – L’esilio nella propria terra. La Djebar è stata coinvolta nella guerra di liberazione algerina, distinguendosi come autrice di romanzi riguardanti l’emancipazione della donna. Oggi vive tra la Francia e l’America e per questo, proprio all’inizio dell’incontro, a proposito di esilio afferma: «Sono alla partenza, con il ritorno, a volte anche senza ritorno, ma ho pur sempre questo piacere di muovermi». A Parigi Assia non si è mai sentita né immigrata né esiliata e, prima che intervenisse la violenza degli integralisti islamici nel suo Paese, aveva sempre pensato di poter tornare, mentre oggi pensa solo di potervi morire. Quel che più le importa, però, è il discorso sui luoghi persi e luoghi ritrovati o da trovare. Alla nozione di luogo, che rimanda a qualcosa da contemplare ( come un paesaggio) sostituisce quella più concreta di spazio che, nonostante di piccole dimensioni, permette a chiunque di entrarvi e di muoversi. Parlare di spazio da trovare a proposito di mondo musulmano significa, però, soprattutto rivolgersi alla questione femminile e, quindi, trattare di spazi da trovare per le donne. A questo proposito viene condotta una descrizione della geografia dei Paesi arabi, che si dividono i quelli di tradizione Wahhabita (Arabia, Golfo Persico) in cui ci sono veri e propri luoghi di segregazione sessuale istituzionalizzati in modo permanente in cui si afferma con dolcezza che la donna accetta il ritiro ma in realtà si tratta di sola violenza (ne è un esempio l’Afganistan); e quelli di tradizione Shiita (Iran) in cui la donna si mostra, lavora, manifesta, ma sempre con il corpo coperto. La motivazione di una tale segregazione va ricercata nei complessi rapporti Oriente-Occidente, nei quali la donna rappresenta una zona d’ombra. Alla mentalità occidentale, fondata sullo svelare (dal conosci te stesso socratico alla confessione cattolica fino alla conoscenza totale di se stessi e del proprio corpo tipica del XX secolo) fa riscontro una mentalità musulmana che si richiude in se stessa, nella sua femminilità di cui si vergogna. I ruoli si invertono e la donna, un tempo tenuta in considerazione, viene nascosta. La donna, quindi, vista solo come essere adatto a procreare, intrappolata in questa piega, può trovare spazio per se stessa solo nella scrittura e nella cultura orale, dove le è principalmente possibile far sentire la propria voce (la voce, la voce, la voce / è solo la voce che rimane / perché dovrei fermarmi?).

Di tono del tutto diverso e decisamente brioso è stato, invece, lo spettacolo di Marco Paolini, che aveva per tema l’Altrove. L’atmosfera di piazza S. Marco, unita allo splendido scenario, ha suscitato negli spettatori notevoli suggestioni e coinvolgimento emotivo. L’altrove, specchio in negativo, è il filo che collega storie di carattere autobiografico o di memorie collettive, ma anche canzoni (di Bruce Springsteen), poesie o racconti d’autore (di Calvino), il tutto rielaborato e fatto proprio dal genio creativo dell’attore. Parlare di luogo e, più precisamente, di altrove, vuole dire, però, necessariamente coinvolgere il viaggio, visto come mezzo per passare da un altrove ad un altro e come fine delle sue storie. Non a caso una delle storie che Paolini racconta ha per protagonista il treno. Ambientata nell’estate del ’74, anno in cui «vanno in pensione» le locomotive a vapore, la storia descrive le sensazioni dei clienti del bar di Iole nell’osservare i treni partire ed arrivare e ciò dà luogo a considerazioni profonde come quella: «Le stazioni che preferisco sono quelle dove i binari non finiscono», frase in cui la spazialità infinita dell’altrove trova la sua più alta espressione. Viaggiare significa, però, essenzialmente conoscere e per conoscere bisogna essere in grado di imparare costruendo ponti, come quelli che Paolini stesso ha creato fra le sue storie e la sue canzoni, osservando, ad un certo punto, provocatoriamente: «Ho imparato più da tre minuti di musica che da diciassette anni di scuola». Trasferito nella storia, poi, creare ponti significa aver sempre presente la memoria del passato, cosa che a noi spesso manca, come lamenta l’attore stesso: «Abbiamo il vuoto della memoria… siamo spettatori del finale, non possiamo permetterci di gettar via la nostra storia, questo non va bene, bisogna raccontarla la nostra storia, è un lusso che non ci possiamo permettere». Non mancano le trovate di frizzante ironia che vela, però, una realtà triste, da rinnovare; in tutto aleggia uno sfondo di verità universale che tende non tanto a far sorridere quanto a far riflettere.

Marta Petrillo, Alessandra Santoro e Concetta Vacca