Questa è una delle cose, per me, più difficili da scrivere. Scrivere sul proprio libro. Ma come faccio? Quello che dovevo scrivere l’ho scritto nel libro, si dice sempre. Non so se sia del tutto vero. So, però, che scrivere qualcosa sul proprio libro mi fa venire una specie di vertigine. Perché a me capita questo: quando ho scritto un libro (ne ho scritti solo tre, ma mi è capitato sempre) e il libro è tutto lì, bello e incopertinato, un oggetto, insomma, che una macchina industriale ha prodotto, stampato, rilegato. Quando vedo il libro lì, io mi sento avvolgere in un senso di gratitudine per il lavoro degli altri, di quelli che hanno materialmente prodotto quelle copie, e contemporaneamente, sento che io e lui (il mio libro) ci separiamo. Lui è diventato adulto. Deve andare per la sua strada. Naturalmente non si tratta di un abbandono, ma di un’emancipazione (di lui da me, ma anche – e tanto! – di me da lui, devo ammettere). Così ci si saluta. Avrò sue notizie. Ogni tanto lo rileggerò. Forse qualche amico me ne parlerà.
Cosa posso dire io adesso, adesso che lui se n’è andato? Che l’ho cresciuto con amore, affetto e difficoltà. Che spero di aver fatto del mio meglio. Che spero in lui, che non faccia guai, che si comporti bene. Che sia felice, certamente. Cioè che piaccia a chi lo legge. Che piaccia tanto, naturalmente (una botta di orgoglio, qui!).
Forse ciò che posso dire di lui, oltre al nome (che è Forme d’onda) e all’editore (che è Feltrinelli) e al prezzo (che è troppo alto), è come si comportava prima di andarsene. Il suo modo di crescere presso di me.
Dunque. Forme d’onda, tanto per cominciare, è arrivato senza che io lo decidessi. Avevo scritto Rincorse (Einaudi), e volevo mettermi d’impegno per scrivere un altro romanzo, più corposo di Rincorse. Più lungo, per dirla in metri. Ma ecco che dalla penna uscivano strani grumi d’inchiostro. Non scorreva, niente affatto. Mi mettevo lì per un romanzo e squeck! la penna sputava fuori una macchia nera. E poi un’altra. E poi uno sbuffo di macchioline. E una crosta. E un getto intermittente. Insomma, prima che l’inchiostro fluisse tutto per bene e in modo liscio, dovevo far fuori questi intralci. Questi intralci erano i brani di Forme d’onda. E allora ho dovuto accettare la realtà e posticipare la stesura del romanzo, per seguire la nascita di questi pezzetti.
Solo che questi pezzetti non sono affatto pezzetti slegati l’uno dall’altro. Capitava questo: quando ne avevo fatto fuoriuscire uno, ecco che un altro prendeva forma. Un altro che però aveva una relazione con quella appena nato. Una relazione di volta in volta diversa. Allora, in uno c’era un granchio. Ecco che me ne veniva alla penna un altro con un altro granchio. Il primo era ambientato negli Stati Uniti e il secondo in Europa. Uno sulla sponda dell’Atlantico, uno su quella di fronte (Portogallo). Poi usciva una roba con tutte le frasi subordinate, che suonava in modo lento e languido e avvolgente (Pavana del viale) e subito un altro (Shimmy), perché aveva un’altra musica e voleva che si sentisse a fronte della pavana. E in uno c’è il mare, e allora nel suo dirimpettaio anche c’è il mare. Dirimpettaio? Sì, perché i pezzetti di Forme d’onda si organizzano attorno a un centro (L’aeroplano) e alcuni di loro si rispondono simmetricamente a distanza. Alcuni ma non tutti. Solo quelli necessari a fare da tiranti e collanti a tutto il volume. Come le travi per il tetto. E così il libro è cresciuto, con una struttura, uno scheletro molto strutturato. Poi però ha messo su la sua brava carne e lo scheletro è giusto che non si veda. È giusto che svolga la sua funzione, ma che però non si veda. Se non facendo una radiografia. Ma i lettori normali non devono fare una radiografia, devono vedere come si muove una persona. La radiografia deve, caso mai, farla il critico. Solo che spesso non ne ha voglia, o è distratto, o è stanco. E allora lo scheletro capita che non lo veda neanche lui.
A me non importa: l’importante è che io so di avercelo messo. So che adesso che il libro se ne gira da solo per il mondo, sotto la pelle ha i muscoli e sotto i muscoli ha belle ossa. Così sono tranquillo perché so che è robusto, anche se non è questo che a lui interessa.
Potrei dire cosa penso di lui. Ma vale la legge dello scarrafone: lo trovo bello. Ha i suoi difetti, ai quali però sono affezionato. Ha i suoi meriti oggettivi, però me li fanno scoprire gli altri. Posso dire una cosa, anzi, ci tengo a dirla: è un libro ricco di cose. Ce ne sono tante. Diverse. Molto diverse: è un libro assai vario. Ho voluto farlo così, e mi sembra di esserci riuscito. Uno scrittore che a me piace molto (e di cui consiglio la lettura), Aurelio Picca, mi ha però detto che si vede che li ha scritti la stessa persona. Si sente la stessa mano. Non tutti lo sentono così, ma va da sé che uno scrittore legge i libri con un occhio diverso da chi scrittore non è. Vede altre cose, perché cerca quasi sempre altre cose. A me, comunque, quel parere ha fatto piacere.
Potrei dire qualcosa sui singoli pezzetti di cui è fatto il libro. Però quasi sempre si tratta di pezzi così brevi che non saprei come farne riassunti che si distinguano poi dai titoli.
Posso dire così: se qualcuno di voi lo incontrasse, il mio libro, lo saluti da parte mia. Gli dica che lo penso sempre. Grazie.
L’autobiografia del ’96
Mi chiamo Dario Voltolini. Sono nato a Torino (Italia) il 19 aprile 1959. Sono sposato. Mia moglie si chiama Gabriella. Abbiamo una bambina che si chiama Evelina e che è nata quest’anno (1996).
La bio nel 2016
Ha scritto radiodrammi per la Rai e libretti per il compositore Nicola Campogrande. Ha esordito nel 1990 da Bollati Boringhieri con Un’intuizione metropolitana, cui sono seguiti Rincorse (Einaudi, 1994), Forme d’onda (Feltrinelli, 1996), 10 (Feltrinelli, 2000), Primaverile (Feltrinelli, 2001) e Le scimmie sono inavvertitamente uscite dalla gabbia (Fandango, 2006). Ha curato con Antonio Moresco il discusso volume Scrivere sul fronte occidentale, uscito da Feltrinelli nel 2002. Nel 2003 ha pubblicato, da Quiritta, I confini di Torino, un ritratto inedito e affascinante della città in cui vive. Nel 2004 è uscito, presso l’editore Sironi, Sotto i cieli d’Italia, firmato insieme a Giulio Mozzi, un lavoro collettivo per un inusuale viaggio lungo la penisola, e nel 2005 Il tempo della luce. Narrazioni dell’infinito (Effigie).
Il libro oggi
Dario Voltolini
Forme d’onda
Laurana Editore
euro 4,99