Dai loro occhi caddero alcune
lacrime naturali, però subito
se le asciugarono: il mondo stava
tutto davanti a loro, in cui scegliere
dove fermarsi, con la Provvidenza
per guida, e mano nella mano, lenti
e incerti nel passo cominciarono,
nell’Eden, il cammino solitario. (Paradiso Perduto, Milton)
Linda Fried è una geriatra ed epidemiologa statunitense che ha rivoluzionato il modo in cui la medicina vede l’invecchiamento. Le sue ricerche ci aiutano a capire meglio e a dare una nuova forma al concetto di “fragilità”: a quella maggiore vulnerabilità dovuta al declino delle riserve fisiologiche, che riduce la capacità di fronteggiare e scalzare gli stress quotidiani. Noi anziani fragili abbiamo una minore capacità di adattamento ad eventi come una infezione, una caduta, un intervento chirurgico. Perché le nostre riserve (muscolari, immunitarie, cardiovascolari, nervose) sono più scarse, perdiamo massa e forza, le nostre difese sono meno efficienti, cuore e polmoni si adattano meno allo sforzo, il nostro cervello è meno plastico; in sintesi non funzioniamo più “in eccesso” come quando eravamo giovani. È questo “eccesso” che viene a mancare. Un anziano allora non è (con quel tanto di paternalismo abbastanza odioso) un vecchietto debole con la memoria che vacilla ma una persona su una nuova soglia in cui si intrecciano biologia, emozioni e relazioni sociali.
La forza non è mai solo una questione di muscoli o memoria, ma è una questione di legami, di storie condivise, di quel filo invisibile che ci tiene uniti gli uni agli altri.
Una domenica di giugno del 2017, ero a Bologna da pochi mesi, in piazza S. Stefano, il giornalista Mario Calabresi intervistava lo scrittore peruviano Mario Vargas Llosa, premio Nobel per la letteratura nel 2010, morto di recente a 89 anni. Vargas Llosa raccontò che, immaginando la propria vecchiaia, progettava che a ottant’anni avrebbe comprato un cane e si sarebbe ritirato in riva al mare su un’amaca. Ma raggiunta l’età prevista confessava di aver tenuto fede solo alla prima parte del suo progetto, prendendo un danese. Sull’amaca di fronte alle onde non ci era ancora andato. “La verità è che vorrei morire con le dita sporche di inchiostro”, disse queste parole o simili in quella intervista di quella sera, all’imbrunire. E queste parole mi sono rimaste nella memoria, nella memoria di un medico neopensionato che aveva deciso di non entrare più in sala operatoria. Vargas Llosa ha scritto quasi fino alla fine. In autunno uscirà in Italia il suo ultimo libro (I venti) in cui racconta di un uomo molto anziano che esce di casa per partecipare ad una manifestazione per salvare una delle ultime sale cinematografiche della sua città; sulla via del ritorno l’anziano si perde e comincia a vagare senza ricordare l’indirizzo di casa. Un perdersi che è una riflessione su tutto ciò che possiamo perdere, cominciando dal piacere di andare a vedere le cose dal vivo anziché sullo schermo di un telefonino. Questo per dire che bisogna sempre sporcarsi le mani a fare e andare con le proprie gambe anche doloranti e malferme, a vedere con i propri occhi la realtà, conservare la passione e nutrirla con la realtà che palpita intorno a noi. Sempre e comunque.
A un certo punto tutto finisce! Ci dicono pure, un’altra frase fatta, una per ogni occasione, una per ogni età. Un’altra frase odiosa.
Lidia Ravera, scrive con forza che no, che non è vero che a un certo punto tutto finisce. E dice: la cultura aumenta con gli anni, e quando la cultura cresce, crescono anche l’empatia, la gradevolezza, il senso dell’umorismo e quindi la capacità di sorridere. Anche intelligenza e ingegno continuano a svilupparsi. Non è vero che finisce tutto, così come non è vero che “invecchiare significa diventare saggi”. No, vecchiaia e saggezza non sono sinonimi. L’invecchiamento porta con sé esperienze, sicuramente, ma la saggezza dipende da come elaboriamo tutto quello che sperimentiamo. Non basta vivere a lungo per diventare saggi; servono riflessione, umiltà e volontà di imparare dagli errori. La saggezza è frutto di un lavoro interiore. Chi non si interroga, chi non mette in discussione i propri pregiudizi, chi rifiuta di evolversi, invecchierà e basta, senza maturare veramente. La saggezza è un’arte che si coltiva con intenzionalità, non un dono del tempo che passa; è una scelta, non una conseguenza del tempo.
Nel terzo tempo della nostra esistenza incontriamo certamente delle difficoltà, è inutile negarlo. Il corpo diventa un testimone scomodo: ci mostra cambiamenti fisici, segni di fragilità, limiti imprevisti. E questo accade mentre viviamo un’epoca “fissata” per i corpi, la contemplazione dei corpi, l’ammirazione dei corpi e quindi l’alterazione e la loro contraffazione. Dal modo in cui sperimentiamo queste difficoltà, ogni giorno, dipenderà il nostro stato di benessere o malessere: possiamo soccombere, deprimerci, sviluppare tensioni, ansie; oppure possiamo elaborare una visione che ci dia serenità, conforto, armonia e persino gioia. Un nostro “giardino” (🔗Il giardino contro il tempo di O. Laing), una specie di antidoto.
La nostra visione ma anche quel maledetto sguardo altrui su di noi, così vecchi. Quello sguardo che ci fa temere la vecchiaia, a vergognarci delle rughe, a nascondere, a rincorrere le aspettative degli altri. Basterebbe uno sguardo diverso, più “tenero”, uno che riconosca davvero la dignità di ogni età (senza voler venderci niente). Erri De Luca descrive la vecchiaia come un ‘’corpo che si fa ostacolo’’, ma anche, ed ecco lo sguardo diverso, come un testimone fedele che registra la vita. Con uno sguardo diverso la fragilità diventa dignità, non è più una sconfitta, ma un diverso modo di essere forti: ‘’il vecchio scalatore non conquista vette, ma impara a cadere senza farsi male’’. E poi, teniamolo sempre a mente che invecchiare è un privilegio negato a molti e concesso a pochi. Non sprechiamolo, Il segreto di una vecchiaia serena sta proprio nell’accettare la ‘’bellezza del limite’’. Nella Grecia antica l’accettazione del limite era considerata una forma di saggezza fondamentale. Il limite oggi invece è in esilio, lo abbiamo ostracizzato, mandato via, escluso dal nostro orizzonte.
Il nostro sguardo sulla nostra vecchiaia e quello altrui, che spesso manca, perché per gli altri, per i giovani, noi anziani siamo quasi invisibili si intrecciano alla biologia e ad una medicina di sostegno (non una medicina che vuole curare a tutti i costi).
Con il suo saggio 🔗La terza età, Simone de Beauvoir già aveva provato a smantellare i pregiudizi sociali sull’invecchiamento, dimostrando che anche la vecchiaia è una costruzione sociale oppressiva da parte di questa società giovanilista e produttivistica. La società, dice la Beauvoir tratta i vecchi come una “alterità” da escludere, proprio come fa con le donne. La sua analisi anticipa le battaglie contemporanee per i diritti degli anziani e l’invecchiamento attivo, dimostrando ancora una volta che ‘’non si nasce vecchi, lo si diventa’’ sotto il peso di costruzioni sociali spacciate per natura. Invecchiare può e deve essere un ‘’atto di libertà, non di resa’’, accettare l’età come parte della libertà esistenziale, non come degradazione; smettere di lottare contro il tempo per iniziare a vivere con esso. È una libertà più radicale di quella giovanile: la libertà di essere ciò che si è, senza maschere.
Perché quello che siamo, la nostra umanità ce la portiamo addosso fino alla fine, anche quando i limiti dell’età diventano dei fardelli, anche quando invecchiamo male o peggio, anche quando arriva la demenza senile. Ricordo Anthony, il protagonista di The father, magnificamente interpretato da Anthony Hopkins. Anthony ci sfida, sfida noi spettatori a riconoscerne l’umanità perché nonostante la demenza, Anthony, conserva la sua dignità, il suo humour, la sua rabbia, anche nello smarrimento, ha desideri, paure, emozioni complesse. Anthony ”capisce altro, non meno”. Resta un ‘’uomo’’, una ‘’persona’’ (non un bambino, o una bambina, da prendere per mano) con la malattia che lotta per tenersi aggrappato alla sua identità. Lo stigma viene capovolto. Non è lui a essere “irragionevole”: è il mondo attorno a lui che diventa ‘’incomprensibile’’.
La nostra fragilità non è un fatto anagrafico allora, ma una condizione fisica e sociale, in cui come ci vediamo e come gli altri ci vedono giocano un ruolo essenziale. Non tutti gli anziani sono fragili, non tutti lo sono allo stesso modo o per le stesse ragioni. La fragilità è prevedibile e reversibile. Soprattutto può essere allenata. Perché non si tratta di aggiungere anni alla vita ma vita agli anni. Di essere sempre un simulacro di noi stessi, di quello che siamo stati, come una scenografia non ancora smontata dopo la rappresentazione. Non si tratta di conservarci, ma di evolvere ancora, liberamente, fragilmente anche, ad un’altra velocità.
Pasquale Acierno
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