Per una lira è il titolo di una canzone di Lucio Battisti che comincia così: Per una lira io vendo tutti i sogni miei. E poi la voce a strisce di Battisti racconta la storia di qualcuno che a malincuore si distacca da una parte di sé. Ascoltandola, ho sempre pensato a chi scrive. In particolare agli esordienti. Chi, per la prima volta (e spesso per una lira) consegna il proprio destino al mondo. Nell’incertezza e nell’imprecisione, un esordio insegna a scrivere più di un capolavoro (anche quando le due cose coincidono: David Foster Wallace, La scopa del sistema, 1987). Per una lira è uno spazio dove leggendo le nuove voci della narrativa, italiana e straniera, metteremo in luce alcuni aspetti di un romanzo legati al gesto dello scrivere per la prima volta, ovvero alla scoperta della propria voce.
Alessandra Minervini, scrittrice, editor e writing coach. Il suo primo romanzo si intitola Overlove, LiberAria 2016. Il suo sito è alessandraminervini.info. Qui gli articoli pubblicati su exlibris20.
Tra le viuzze e i baretti, tra i brindisi con birre economiche e le sniffate nei bagni, personaggi immobilizzati e anestetizzati dalla noia e dall’arrendevolezza vibrano in una continua tensione verso l’evasione. Donne che si mettono a nudo rinunciando ai propri abiti, strappandosi le proprie croste e persino abbandonando la propria pelle, che riducono in cenere ciò che hanno coltivato con minuzia e pazienza, che soffrono l’inconciliabilità delle proprie personalità con le aspettative della società. Con un linguaggio secco, rapido e ritmico, Francesca Mattei rappresenta in questi racconti una stasi nervosa frutto di forze contrastanti – il peso delle radici e l’accelerazione dell’inebriamento – che permeano le ombre malinconiche di piccole cittadine o case opprimenti da cui sembra non esserci via di fuga, fino a quando questa via di fuga non viene spalancata con la forza.
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Lezione n. 28
Scrivere (è) un’ossessione
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Ultimamente mi tocco spesso le ossa della faccia. Lo faccio perché mi piace, ma soprattutto perché non posso farne a meno: è più un impulso che una scelta. Seguo le linee solide della mandibola con il medio e l’indice di entrambe le mani, risalgo dietro alle orecchie e passo agli zigomi, che sono prominenti e spigolosi. Gli occhi affondano in un paio di orbite profonde. Ho un teschio bellissimo, leggermente irregolare e un po’ asimmetrico. La parte sinistra sporge più della destra, la pelle sotto gli occhi è secca e sottile e la fronte sembra attraversata da una breve crepa verticale.
Se esiste un motivo per cui continuo ad amare i racconti è per ritrovarci dentro un’ossessione. La mia ossessione, l’ossessione della scrittura. Se è lo stesso anche per voi, che i racconti magari li leggete e li scrivete, allora questo esordio vi darà certamente pane per le vostre ossessioni. Il giorno in cui diedi fuoco alla mia casa è la raccolta di racconti con cui ha esordito Francesca Mattei per Pidgin Edizioni, ed è anche l’esordio della casa editrice alla narrativa italiana. Ed è straordinario che questo esordio editoriale si valga della specie letteraria più temuta in Italia forse prima dagli editori che dai lettori: i racconti. Quelle short stories la cui dea, Flannery O’ Connor, considerava “una delle forme letterarie più difficili, e io mi sono sempre chiesta il perché di questa convinzione, visto che a me pare uno dei modi più spontanei e fondamentali dell’espressione umana.” Questa visione della narrativa breve, l’ho ritrovata nell’esordio di Mattei. Se consideriamo che la spontanea espressione umana che viene fuori dalle sue storie è, appunto, l’ossessione, la compulsione, i tic, le manie, le dipendenze e le ferite che rendono la vita impossibile almeno quanto rendono la scrittura una feconda possibilità.
«Sono solo una donna adulta a cui è morto un genitore, non troppo presto e non in modo particolarmente traumatico. Non ho diritto di sentirmi così, di volermi ammazzare e di riempirmi di farmaci, perché questo è il ciclo della vita, è quello che succede quando cresci: vedi morire tua madre.» Mi rovescio un po’ d’acqua sulla testa. I capelli bagnati diventano pesanti e aderiscono alle mie guance. Laura si è spellata fino alla spalla e si accinge a fare il giro del collo. Brilla come un’insegna al neon.
Il giorno in cui diedi fuoco alla mia casa è una specie di fiamma ossidrica, come suggerisce il titolo del libro che è pure il titolo di uno dei racconti che più ho apprezzato. Personaggi, storia e voci narranti agiscono nella pagina come a saldare una traccia di vita, un pezzetto di pelle, la spaccatura psicosomatica con la realtà. In questo racconto, per esempio, la voce narrante ci affida una storia che nel finale rivela quanto possa essere inaffidabile una voce che racconta e che in fondo è per questo che la cerchiamo, ci facciamo trascinare nel mistero.
I diciassette racconti, dieci inediti e il resto pubblicati in passato su alcune riviste letterarie che rappresentano ormai la più solida fucina di talenti ed esordienti italiani, sono racconti molto brevi, hanno la forma simbolica di singhiozzi imprevedibili con l’aggravante di sembrare terribilmente veri. Non importa quale sia l’ossessione e non importa dove conduca la deviazione dalla realtà, l’attenzione si sposta inevitabilmente su ogni dettaglio maniacale dei personaggi e si finisce per ritrovarsi insieme a loro a mangiarsi le pellicine, leccarsi le ferite, scorticarsi le croste, mettersi lo smalto alle mani e tante altre piccole meravigliose istantanee del male di vivere.
Ma è troppo tardi. Il mio corpo, succube, pallido, indifeso, è già colpito dal sole. Mi lascio cadere senza far rumore. L’asfalto è butterato e grigio, immobile. Mi rannicchio come un animale nella sua tana. Chiudo gli occhi e la luce scompare.
Leggendo questi racconti ho ritrovato le vite disgregate e senza retorica di un esordio di qualche anno fa che, pur essendo un romanzo, si specchia in questi racconti, si tratta di Carne Viva, di Merrit Tierce (tradotto da Martina Testa per Sur edizioni). In questo romanzo il corpo della protagonista diventa una sorta di mappa dell’orrore della vita quotidiana, di tracciato involontario eppure ben visibile di un’esistenza che proprio non gira come dovrebbe e forse proprio questo, con l’autolesionismo tipico di chi si sente fuori dai giochi, si insiste nell’orrore senza fare un passo sano per rimediare, per cambiare la situazione.
Tra i racconti della raccolta che ho preferito, a parte quello che dà il nome al libro, per la scrittura asciutta e i finali netti senza ripensamenti ci sono “Croste”, “Struttura Ossea” , “Nata per questo” , “Smalto” in particolare. Se è vero, come lo è, ciò che dice la divina O’ Connor “la narrativa procede per particolari non significa limitarsi ad accumularli meccanicamente l’uno sull’altro. I particolari devono rientrare in un disegno complessivo, e ogni particolare va messo al servizio dell’intento del narratore”.
Ogni dettaglio antropomorfo o meno dentro queste storie, anche se può ripetersi simbolicamente, è messo dentro la narrazione non per sfoderare una visione del mondo, non per far vedere io sono strano o strana eccomi dunque in un racconto. No, ogni cosa è illuminata dal buio nelle storie di Mattei. Sostanze stupefacenti, abusi, oggetti e particolari orrendi, incontri terrificanti e visioni trascendentali in questi racconti non creano la classica “mostra delle storie trasgressive”. Spesso mi è successo di osservare dentro una storia una trasgressione troppo dall’esterno, e l’ho trovata un pretesto farlocco. Qui invece la trasgressione è vista dall’interno, come la letteratura ci riguarda. Come dice la voce narrante di uno dei racconti “Tutto quello che entra lì dentro rimane lì dentro.” E proprio per questo noi ci stiamo bene.
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