Qualche tempo fa ho letto un articolo sul Guardian dal titolo 10 inspiring female writers you need to read e ho pensato 1) che bella la parola inglese “inspiring”; 2) quante di queste scrittrici per me lo sono o lo sono state e in che misura; 3) mi piacerebbe proporre lo stesso tipo di spunto anche su exlibris20.

C’è da dire che quell’articolo era una risposta un po’ polemica a Gay Telese, scrittore americano, che in suo intervento alla Boston University alla domanda di una persona del pubblico di fare dei nomi di scrittrici che l’avessero ispirato, lui rispose: “None.” Nessuna. Contro quella risposta si scatenarono sui social molte persone, note e non, e dopo poco il Guardian pubblicò questo articolo costruito con i suoi lettori.

Oggi io da lettrice e – senza dover rispondere a nessuna polemica – ho deciso di rispondere alla domanda posta a Telese e ho scelto questa data simbolo che è l’8 marzo per condividere il mio pensiero. Lo faccio con una convinzione che la scrittura può ispirare una persona ad affrontare le grandi o le piccole domande della vita.

Mi sono lasciata ispirare da quattro scrittrici italiane e solo una americanah, ma per me molto significativa. Ho raccontato di loro attraverso le parole di chi le ama e le ha amate, quanto o più di me. Per sceglierle mi sono anche confrontata con altre donne e alla fine ho scelto questi nomi e  ho selezionato queste suggestioni per potervi far entrare nel mondo di queste scrittrici inspiring.

1. Natalia Ginzburg (1916-1991)

Diario d’amore ossessionato dalla ricerca di un padre

Sembra un paradosso che Natalia Ginzburg, la quale nei suoi libri non fa che parlare di sé, non ci abbia mai raccontato niente di se stessa. Dei dintorni di questa scrittrice credevamo di sapere tutto. Conoscevamo la pubblica scena della sua infanzia, il volto e le risse dei suoi fratelli, le lentiggini, la vitalità, l’ottimismo a prova di bomba dei genitori. Dalle pagine di Mai devi domandarmi, adesso ci viene incontro anche la selvaggia, ilare o distratta severità dei suoi figli. Ma della persona della Ginzburg – di «Natalia» – seguitiamo a sapere soltanto che è nata ultima in una numerosa famiglia ebraica di origini triestine, i Levi, trapiantati a Torino. In fondo, di se stessa, con le sue parole, la Ginzburg non ci ha mai raccontato niente di più.

In quella specie di illustre dagherrotipo che è Lessico famigliare, la vita degli adulti di casa Levi ci era descritta in minimi e perfino indiscreti particolari. Ma nulla ci era detto sull’infanzia di chi diceva «io». Puntato l’indice su chi, in quel «romanzo», era ritratto di sbieco (come Filippo Turati), o era stato ripreso in primo piano, a tutto tondo (come Adriano Olivetti), ci si poteva anche divertire nel riconoscere i personaggi ormai leggendari, passati alla storia che nella soleggiata o nebbiosa Torino degli anni Venti incrociavano la casa ospitale del professar Levi, in via Pallamaglio. Inutile, sotto il cono di luce della lampada cercare tra quei volti anche quello della goffa, svogliata e timida Natalia. Quel volto si restringe tra due occhi infantili, neri e pungenti, innamorati e impietosi, che si spostano su cose e persone nel punto in cui la Torino di Gramsci e di Gobetti sta trapassando in una quieta luce borghese, tardo impressionistica, tra i primi simboli di Montale e le lunghe passeggiate «amoureuses» del giovane critico Giacomo Debenedetti.

Prima di diventare adulta, la Ginzburg imparò esattamente il contrario della letteratura. Imparò la difficile piemontese civiltà della reticenza. Appena le mosse della vita famigliare si confondono con le linee personali del suo destino, la Ginzburg smette improvvisamente di parlare. Appena la storia, il lutto, la morte arrivano a scomporre e a dissolvere le immagini del dagherrotipo di famiglia, allora la Ginzburg comincia a offuscare di proposito i ricordi, li annebbia, li protegge. Un sigillo di pietà religiosa chiude le ultime pagine del «lessico», benché dicendo continuamente «io», la Ginzburg sa parlare solo degli altri, come se soltanto agli altri, e non a lei, spetti il privilegio, il talento leggero e puerile di essere adulti. Come si fa, come si «può» essere adulti? come assumersi tanto credito, come darsi tanta importanza? «Si entra in letteratura – scrisse una volta Proust- come si entra in religione». Per una graziosa e dolorosa inversione di valori, appena la vita diventa la nostra vita, appena le cose diventano «vere», e ci fanno essere e diventare adulti con loro, a quel punto esse cessano, a un tratto, anche di essere raccontabili. Quello che è degno di essere riferito e commemorato, per la Ginzburg, risiede in tutta la vita che non ci appartiene.
Cesare Garboli


Da dove iniziare:
Lessico famigliare è obbligatorio. Poi io passerei a La corsara di Sandra Petrignani per capire chi c’è dietro quella scrittura. Per poi seguire con tutti i volumi ripubblicati e curati da Domenico Scarpa, uno degli ultimi  veri critici letterari.

Per approfondire:

Curiosità: L’anno scorso i Perturbazione (e la loro musica) e il Teatro Stabile di Torino (e i loro attori) hanno messo in scena il teatro di Natalia Ginzburg: Dialogo, La Segretaria e Ti ho sposato per allegria, tre lavori molto diversi in cui sono protagoniste coppie che non funzionano, amori nuovi, passioni nascoste, personaggi che non riescono a farsi accettare.

2. Alda Merini (1931-2009)

«Sono nata il ventuno a primavera / ma non sapevo che nascere folle, / aprire le zolle / potesse scatenar tempesta.»
Lei.
Lei nasce il 21 marzo del 1931.
A 15 anni scrive le sue prime poesie e a 16 anni finisce per la prima volta in manicomio: “matta in mezzo ai matti. Alcuni di loro erano molto intelligenti: sono nate lì, le mie più belle amicizie. I matti sono simpatici, non sono come i dementi che sono tutti fuori nel mondo: i dementi infatti li ho incontrati dopo, quando sono uscita.
Il primo grande amore si chiamava Giorgio Manganelli: aveva occhiali da intellettuale, un naso a becco d’aquila, ed era un fine scrittore. Ha nutrito una passione travolgente per Giorgio, “
dopo di lui infatti mi sono svegliata fiorita, ma di colpo in manicomio.” E “il manicomio non finisce più. È una lunga pesante catena che ti porti fuori, che tieni legata ai piedi. Non riuscirai a disfartene mai.” E con questo macigno nella mente ha trascorso il resto della vita, tra i navigli silenziosi che scorrono lenti fino al mare.
Si sposa nel 1953 con  Ettore Carniti, fornaio “che sapeva amare come un soldato che dirige tutte le truppe.” Con lui ha messo al mondo quattro figlie: Emanuela e Flavia, Barbara e Simonetta.
Dal 1965 al 1972 è internata al Paolo Pini dove subisce più di cinquanta elettroshock.
Non sono stata certo una donna addomesticabile, sono stata una piccola ape furibonda. La pazzia mi ha visitato almeno due volte al giorno”.
Amante dell’amore, ha amato Pierre, l’amore del manicomio; un pittore di nome Charles e poi un clochard che si faceva chiamare Titano.
Ha seguito in Puglia il suo secondo marito Michele Pierri, un medico e poeta.
Per un po’ “lasciai il mio Naviglio, povero e pieno di languore”, con le sue trattorie modeste, i caffè letterari, le botteghe degli artisti. Ma laggiù, nel tavoliere, la nostalgia bussò più volte al cuore fino alla pazzia che la portò stavolta nell’ospedale psichiatrico di Taranto.
A Milano vi ritornò di notte, come un profugo che sbarca di nascosto. La sua Milano, “che è come una donna altera e sanguigna, con due mammelle amorose, pronte a sfamare i popoli del mondo. E questa città potrei lasciarla per sempre solo per andare in paradiso, ma forse anche da lì desidererei la mia casa.
Ma, nonostante ciò “
Io la vita l’ho goduta, la mia vita è stata bella perché l’ho pagata cara.
Morta a Milano il primo novembre 2009, alle porte dell’inverno.
Lei è Alda Giuseppina Angela Merini, a tutti nota come, Alda Merini.
Natalia Ceravolo


Da dove iniziare:
Superba è la notte: inizia a conoscerla da lì, perché “la cosa più superba è la notte quando cadono gli ultimi spaventi e l’anima si getta all’avventura”. Continua con Ballate non pagate «Padre, se scrivere è una colpa / perché Dio mi ha dato la parola / per parlare con trepidi linguaggi / d’amore a chi mi ascolta?» E poi falla tua.

Per approfondire:

3. Chimamanda Ngozi Adichie (1977)

Quella identità che nei primi anni in America aveva cercato di adeguare a ciò che là veniva considerato normale. L’accento. Dei capelli idratati, trattati col lisciante fino a bruciare la cute pur di ottenere l’effetto desiderato: dei capelli che, come nelle donne bianche, pendono, si pettinano, possono attraversarsi con le dita… Quella identità che aveva dovuto abbandonare, fingendosi qualcun’altra, per lavorare. E così, grazie ad una narrazione impeccabile, divertente e commovente, la Adichie fa vivere l’America (ma anche l’Inghilterra, dove è invece andato Obinze, con altrettante difficoltà) vista con gli occhi di un’immigrata. Un non-luogo in cui anche ricevere una pubblicità per posta è una gioia: quei formulari prestampati con il nome scritto senza errori in un corsivo elegante l’avevano resa meno invisibile e un po’ più reale. Qualcuno la conosceva”. E la sottile ironia del blog di Ifemelu quanto ci dice sui nostri pregiudizi ancora in essere, che finestra è su un mondo che continuiamo a guardare da troppa distanza? “Ai miei amici neri non americani: in America siete neri, cari miei. Cari neri non americani, quando fate la scelta di venire in America, diventate neri. Chiusa la discussione. Smettetela di dire sono giamaicano o ghanese. All’America non interessa”. Quello che davvero stupisce di questo romanzo formidabile è l’acutezza. La profondità con cui vengono guardati e descritti tutti gli individui che entrano nella narrazione. Non solo i protagonisti, inafferrabili e complessi come le persone vere, ma anche le comparse, come per esempio Don, il padre dei bambini a cui Ifemelu fa da babysitter.
Giuditta Casale


Da dove iniziare:
Io ho conosciuto lei prima di leggere i suoi libri. Talmente è forte la sua personalità che ho imparato prima ad ascoltarla e poi a leggerla. Quindi io inizierei da questo TED talks per passare poi ad Americanah. E seguirla in quello che farà.

Per approfondire:

Curiosità: Beyoncé Feat. Chimamanda Ngozi Adichie: Flawless 

4. Michela Murgia (1972)

Michela Murgia ha il dono – abbastanza raro fra gli intellettuali – di raccontare la realtà senza la presunzione di dover “spiegare” il mondo. Il suo sguardo senza pregiudizi e la solidità leggera della sua scrittura, le consentono di affrontare temi importanti senza rischiare di diventare un “maestro da mangiare in salsa piccante”, come suggeriva Pasolini. (…)
Sei indiscutibilmente una delle intellettuali di punta di questa Italia contemporanea, quanto ti costa uscire dai confini rassicuranti della letteratura e occupare gli spazi del dibattito pubblico?
Il mio impegno è sorto precocemente dalla mia necessità. Dopo una vita da precaria esordisco scrivendo un blog sulla condizione dei precari, quindi il mio primo atto di scrittura è un atto politico, un atto di denuncia di una situazione di svantaggio. Io ho iniziato a scrivere per difendermi. Pubblicare vuol dire occupare uno spazio pubblico, ma devi continuamente chiederti se lo spazio che stai occupando è occupato nel miglior modo possibile. Nel momento in cui una telecamera e un microfono sono puntati su di me, qualcuno sta rimanendo zitto perché io possa parlare, per cui quello spazio lì deve essere considerato come spazio di responsabilità. D’altro canto c’è da dire che avere una telecamera puntata e un microfono in mano è anche un atto di vanità che ti solletica continuamente. Dunque questo spazio pubblico di cui io vivo e vivono i miei libri è sempre ambivalente. Scrivo i miei libri per avere lo spazio per dire le cose che per me sono importanti ma le cose che i libri dicono generano visibilità anche per il mio mestiere. È un grandissimo conflitto d’interessi, perché significa ogni volta domandarti: è opportuno, per tutto quello che sono e che faccio, che questa cosa io la dica? In alcuni momenti non sarebbe stato opportuno ma l’ho fatto lo stesso; in altri momenti probabilmente sarebbe stato opportuno che lo facessi e non l’ho fatto. Non per pusillanimità ma perché l’esposizione richiede un prezzo altissimo. Molti ti ammirano perché dici le cose che vorrebbero dire, ma “ammirare” vuol dire essere presi di mira. Non sempre è una cosa facile da sostenere.
Giovanni Pannacci


Da dove iniziare:
Quello che mi piace di Michela Murgia è la sua intelligenza che declina in diverse espressioni culturali: dal romanzo al saggio; dalla politica alla televisione al teatro. Io comincerei dall’inizio. Se riuscite a trovare il suo primissimo libro sui call center, io comincerei da lì.

Per approfondire:

Curiosità: Michela Murgia intepreta Grazia Deledda a teatro in Quasi Grazia: avete mai sentito il discorso della Deledda quando ricevette il Premio Nobel nel 1926?

5. Elena Ferrante (1943?)

«Sono il tipico lettore madrelingua inglese. Da noi i libri tradotti sono pochi, e non abbiamo idea di cosa c’è d’importante all’estero. Ogni tanto qualcosa passa e diventa un caso letterario. Magari anziché un premio Nobel è Uomini che odiano le donne, ma è sempre un fatto straordinario. Qui negli ultimi mesi tutti parlavano di Karl Ove Knausgård – almeno, ne parlavano tutti gli scrittori e i lettori molto seri. Ho appena cominciato a leggere Elena Ferrante, le sta succedendo un po’ quel che è successo a Knausgård l’anno scorso, se ne parla molto. Però in fin dei conti è vero, leggo pochissimi libri tradotti, non ho scuse e me ne vergogno. Il grande problema è che non so esprimere un giudizio su un libro straniero». (…) «Perché è piaciuta la Ferrante agli inglesi? L’inghilterra degli anni settanta non era certo la Napoli degli anni cinquanta, ma ci andava vicina: un paese freddo e disfunzionale, spesso sprofondato in una gelida oscurità prodotta da carenze di energia elettrica e conflitti sindacali. C’erano scontri feroci tra polizia e lavoratori in sciopero, e i tifosi di calcio si azzufavano ovunque, per le strade e nelle stazioni ferroviarie, oltre che negli stadi. L’imposta sul reddito più alta era del 98 per cento, i pub chiudevano alle undici di sera, la Bbc trasmetteva un programma in cui cantanti bianchi si esibivano con la faccia dipinta di nero.»
Nick Hornby


Da dove iniziare:
Per me Elena Ferrante è L’amica geniale. Inizierei da quel libro. Il resto l’avevo letto prima, ma non mi ero mai appassionata a L’amore molesto o I giorni dell’abbandono. Non ho il coraggio di riprenderli ora. Voglio rimanere nel mio mondo vicino a Lila e Lenù.

Per approfondire:

Curiosità: c’è un passaggio del documentario Ferrante Fever di Giacomo Durzi in cui Jonathan Franzen ne parla così appassionatamente da farmi venire le lacrime agli occhi.

Lea Iandiorio
con la collaborazione di Natalia Ceravolo e Carmine Picone