Sfogliando velocemente un volume che comprenda tutta l’opera in versi di Caproni, la prima caratteristica che si nota è la progressiva rarefazione dei componimenti a vantaggio degli spazi bianchi. Attraversando i sonetti monoblocco (sonetti in cui viene eliminato lo spazio di divisione tra le strofe) de Il passaggio d’Enea, e le lunghe poesie de Il seme del piangere e de Il congedo del viaggiatore cerimonioso, ci si imbatte poi in una progressiva mutazione a partire da Il muro della terra. Già in questa raccolta si possono seguire le tracce che porteranno allo stile dell’ultimo Caproni: poesie molto brevi, di quattro-cinque versi, e spazi bianchi dilatati, con parole vaganti – isolate – nella pagina; un dialogo tra titolo e corpo del componimento (vedasi, per esempio Bisogno di guida) atto al processo di comprensione e significazione dei versi. Altra analogia con le tre ultime raccolte – su cui ci soffermeremo, ovvero Il franco cacciatore, Il conte di Kevenhüller e Res Amissa – è la comparsa di richiami musicali nei titoli delle sezioni: Tre vocalizzi prima di cominciare, Tema con variazioni, Lilliput e Andantino, Due svolazzi finali.

Il richiamo al melodramma è lampante ne Il conte di Kevenhüller – raccolta del 1986 –, le cui tre sezioni sono Il libretto, La musica e Altre cadenze. Melodramma atipico, poiché non prevede alcun accompagnamento musicale – è il suono delle sole parole a dover rapire il lettore, l’ascoltatore –, e che per essere tale non può che incominciare liberandosi di una figura scomoda o tutt’al più superflua: il direttore. «Salito appena sul podio, / un colpo fredda il direttore. // L’orchestra dovrà fare senza. / Il pubblico urla d’impazienza. // Così (e sarà di certo / un baratro) comincia il concerto» (Avvertimento).

Sono un avvertimento – quello dell’assenza del direttore – e un avviso, una chiamata alle armi emanata dall’inesistente Conte di Kevenhüller per braccare un’ancor più inesistente – e proprio per questo essente – bestia («Anche se non esisteva, / la Bestia c’era»). Il libretto delinea, nei suoi primi tre componimenti, il Luogo dell’azione («In ogni dove.») e i protagonisti della caccia: «Alcuni io. / Quasi mai io. / Altri Pronomi. / Nomi. // Parti secondarie: / le stesse del discorso» (Personaggi). È una caccia generale, svolta da un protagonista corale, in ogni luogo; oppure, suggerisce Caproni con l’uso dell’indefinito «dove», della negazione identitaria dell’io e dell’indeterminatezza grammaticale, è una caccia mai avvenuta, in nessun luogo, in cui a essere inesistente non è solo la preda, ma anche lo stesso cacciatore. Eppure, ci dice il poeta, è possibile essere senza esistere: la Belva c’è proprio perché non esiste, e ogni traccia da seguire è una caccia all’interno di sé («Fermi! Tanto / non farete mai centro. // La Bestia che cercate voi, / voi ci siete dentro» si legge nella Saggia apostrofe a tutti i caccianti).

Un’anticipazione di questa caccia avviene ne Il franco cacciatore, e in particolare in Ribattuta – della sezione Lui – («Cacciatore, la preda / che cerchi, io mai la vidi»), dove però la Bestia è allegoria di Dio («Zitto. Dio esiste soltanto / nell’attimo in cui lo uccidi»); e in Geometria – contenuta in Traumerei – in cui inizia effettivamente la sovrapposizione dei piani, il cacciatore a confondersi (o fondersi?) con la preda: «Così si forma un cerchio / dove l’inseguito insegue / il suo inseguitore. / Dove non si può più dire / (figure concomitanti / fra loro, e equidistanti) / chi sia il perseguitato / e chi il persecutore». Nel Il conte di Kevenhüller si ripresenta la questione teologica (l’ateologia caproniana – con alfa privativo), ma non si esaurisce in Dio la bestia: innanzitutto perché se il primo esiste nell’attimo in cui lo si uccide, la seconda al contempo esiste e non esiste; secondariamente, perché Dio viene riconosciuto sempre come soggetto esterno, mentre la bestia può essere simultaneamente interna ed esterna all’io poetico.

Un disvelamento della Bestia avviene, ed è proprio l’io poetico a trovare una pista sicura – che viene però abbandonata («la sola / verità ammissibile / è una: la menzogna», Pensierino facile) –: «Io solo, con un nodo in gola, / sapevo. È dietro la Parola» (Io solo). La possibilità di un’essenza che non implichi forzatamente un’esistenza è contemplata nel linguaggio: tramite esso nasce e si svolge la creazione letteraria. La lingua dell’ultimo Caproni perde la sua componente comunicativa, il poeta non cerca di trasmettere un messaggio, ma di generare combinazioni di parole che esprimano tanti significati quanti se ne vogliano attribuire. Tramite contrapposizioni ossimoriche, sovrapposizioni, confusioni di identità, Caproni riesce a creare metafore vive, a suscitare di volta in volta lo stupore del lettore: la caccia resta aperta, è data la possibilità di essere cacciatore e preda.

L’ultimo avvertimento, prima di iniziare a cacciare (e cacciarsi), viene dato in Res Amissa: «La parola. / La tagliola. // Occhio! / Sono una cosa sola» (La tagliola).

Enrico Bormida

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