Una lettura contemporanea di Fallaci intervistatrice e conversatrice

Appartengono alla politica, alla scienza, allo spettacolo, al cinema, alla letteratura e allo sport le personalità che Oriana Fallaci intervista per il settimanale L’Europeo diretto da Giorgio Fattori all’inizio degli anni Sessanta. Ingrid Bergman, Nilde Iotti, Federico Fellini, ma anche Gianni Rivera, Catherine Spaak e Salvatore Quasimodo: un catalogo di ventenni di successo e mostri sacri o, per dirla con le categorie di Arbasino, giovani promesse (talvolta già elevate a soliti stronzi) insieme a venerati maestri. Anche se sono “quasi sempre simpaticissimi”, Fallaci li chiama antipatici per il loro destino pubblico, lo stare sulla bocca di tutti, sempre a far parlare di sé. Per loro fortuna o loro malgrado. Diciotto di queste interviste, con l’eloquente titolo Gli antipatici, trovano spazio in un volume che vede la luce nel 1963.

Provando ad attualizzare il concetto, identificheremmo negli antipatici di oggi personaggi come Matteo Salvini per la politica, Belen Rodriguez per lo spettacolo, Chiara Ferragni per la moda, Tiziano Ferro per la musica e Michela Murgia per la letteratura. Li caratterizzano talenti diversi e tutto sommato di secondaria importanza. La loro popolarità va oltre, è strabordante ed esasperante e li rende, chi più chi meno, insostenibili. Sono, per richiamare un ulteriore elemento di contemporaneità, protagonisti ideali del format di interviste di Francesca Fagnani: Belve. È un’operazione curiosa leggere oggi le interviste che Fallaci fa agli insostenibili del suo tempo. Prendiamo ancora, per saggiarne affinità e/o divergenze, lo stile di Fagnani che da molti è considerato acuto e non compiacente. Il pubblico la apprezza e la premia con gli ascolti per la capacità di elaborare e proporre in crescendo domande pruriginose, ficcanti e soprattutto documentate. Domande che inchiodano gli intervistati a dichiarazioni controverse, incontri rimossi ed esperienze discutibili di cui sono chiamati a dare conto. Dopo averli provocati, l’intervistatrice lascia gli insostenibili a cavarsela da soli. Interrogatori più che interviste: non è un caso che a uscire pulita da ogni puntata sia quasi sempre solo lei, Fagnani. Confezionando le domande con la pretesa di obiettività (“Questo l’ha detto lei!”, dice mostrando il taccuino), la conduttrice dà l’impressione di consegnarci gli insostenibili per quello che sono. Personalità talmente dense e sature di significati da raccontarsi da sole.

Leggendo oggi Gli antipatici di Fallaci ho vissuto un’esperienza molto diversa. Non solo per il mezzo – l’intervista trascritta da registrazioni tramite magnetofono – e la ricchezza e la profondità dello sguardo di Fallaci che stride con l’immediatezza del mezzo televisivo e la pulizia, per non dire la nudità, dello studio di Belve. Dotata di una levatura culturale e morale paragonabile, quando non superiore, a quella dei suoi intervistati, Fallaci non si limita a “lasciar parlare la gente e riportare con fedeltà quel che dice” (p. 6). Compone ritratti indimenticabili. Una presentazione dell’insostenibile, con le vicende intricate, comiche o stressanti che hanno portato all’intervista, e la descrizione del setting (un salotto, una camera d’albergo, un aereo…) in cui avviene l’incontro, precedono la parte delle domande e delle risposte. Infischiandosene della pretesa di obiettività cara a tanti giornalisti, Fallaci scende in campo con il personaggio, accetta di mettersi in gioco, di sporcarsi, consapevole che non esiste verità dell’intervistato che prescinda dalla sensibilità dell’intervistatore.

Oltre a non risparmiare interventi diretti con la sua visione delle cose – “Signor Fellini: se c’è un uomo che se ne frega del prossimo e non ha spiriti evangelici, questo è proprio lei” (p. 81) – Fallaci non esita a mettersi al livello dell’intervistato. A una giovanissima Catherine Spaak interrogata sul ritrovato rapporto con la fede, Fallaci dice: “Quando io ero diciassettenne, succedeva il contrario: si era educati nella religione cattolica e ci si ribellava in nome della ragione e della libertà” (p. 137). L’impressione che ne deriva è assistere non a una successione di “interviste a”, ma di “conversazioni con”. Il gusto immediato, e un po’ malevolo, di vedere come l’insostenibile se la caverà o si rovinerà con le domande lascia il posto a un piacere più intenso, faticoso e dunque protratto, generato dall’incontro, e soprattutto scontro, tra personalità di ineguagliabile spessore.

Tra le conversazioni memorabili c’è quella con Salvatore Quasimodo, assegnatario del Premio Nobel per la Letteratura nel 1959. Verso di lui, brontolone, rancoroso e convinto com’è della sua superiorità, Fallaci non prova alcuna simpatia e non ha intenzione di celare i suoi sentimenti né ai lettori né al diretto interessato. Tuttavia, il suo sguardo non è pregiudizievole, né il tono definitivo, né la stroncatura il fine: di Quasimodo Fallaci apprezza parte della produzione e che, nel suo piccolo, “abbia dato una volta di imbecille a un fascista” (p. 225). Il distacco e la perplessità “da studiosa”, insieme all’abilità a scorgere il lato umano dietro la patina opaca del personaggio pubblico, si riversano anche sui giovani come Gianni Rivera, “ventenni senza timidezze o paura, già vecchi prima d’essere adulti” (p. 148). Ogni capitolo del libro restituisce l’intervistato con una certa rotondità: là dove sono lodate le opere o le gesta, Fallaci punta il dito contro gli spigoli del carattere. A chi riconosce meriti nel privato, sono contestati eccessi su altri fronti e così via. La sola eccezione in questo quadro appare Natalia Ginzburg capace di attirare il rispetto, la stima e, vien da dire quasi l’affetto, dell’intervistatrice. Animata fin da piccola dall’impulso di “scriver romanzi” e di “conoscerla per chiederle insegnamenti” (p. 304), Fallaci racconta Ginzburg con grazia e ammirazione esplicite, che ne rendono il ritratto luminoso e intenso, benché meno intrigante di altri.

Ciascuna intervista offre la sensazione di affondare le mani non solo nella vita, ma anche nel carattere e negli interstizi meno esplorati della personalità dell’intervistato, apre punti di osservazione privilegiata su conversazioni altrimenti inaccessibili. Ecco perché il volume del 1963 che le raccoglie non poteva alludere a personalità “insostenibili”, termine troppo contemporaneo, dai rimandi freddi e cinici, “da spettatore” più che “da conversatore”. Gli intervistati di Fallaci sono antipatici, con quella connotazione istintiva, personalissima e di cuore con cui fin dall’infanzia dividiamo chi incontriamo in simpatici e antipatici. È per la sua sensibilità “critica”, il potere provocatorio e la capacità di confrontarsi senza riserve con l’intervistato che Fallaci stessa merita l’appellativo di antipatica: non a caso, per il saggio che ne approfondisce il lavoro di giornalista, Anna Gorini sceglie il titolo Una straordinaria antipatica (Carocci, 2023). Oltre a questo aggettivo, verrebbe da citare anche i “complimenti” che riceve da un Fellini in vena di provocazioni: “Disgraziata. Screanzata. Ballista. Maleducata” (p. 76). Siamo consapevoli che, a tratti, Fallaci sa essere tutto ciò nelle sue interviste. Ed è per questo che è divertentissimo, ma anche istruttivo e coinvolgente, leggerla.

Gianluca Giraudo