Il mio primo incontro con Guido Gozzano è stato in montagna, una mattina d’agosto. Seduto su una sdraio in riva a un lago, ascoltavo il cantautore Giovanni Succi leggere i versi del poeta. Con sé, insieme al leggio, aveva un grammofono d’epoca. Solo in seguito mi sono accorto di quanto l’ambientazione rispecchiasse la poetica dell’autore, nel contrapporre a un paesaggio naturale un oggetto d’arredo tipicamente borghese. È tra questi due orizzonti – natura e società borghese –, posti non in un contrasto sterile, bensì in rapporto dialettico, che si muovono i versi dell’autore.
La passione di Gozzano per l’entomologia (la scienza che studia gli insetti), che ricorre spesso nei suoi componimenti, sintetizza la tensione tra mondo naturale e società umana, e ci aiuta a capire come si colloca l’io poetico rispetto a queste tematiche. La sua ultima raccolta – rimasta incompiuta – è il poema Le farfalle. Epistole entomologiche ed è diviso in due sezioni: nella prima si segue il processo di metamorfosi della Vanessa Io – farfalla dai colori sgargianti –, mentre nella seconda vengono descritte diverse famiglie di farfalle.
Nella poesia Dei bruchi, il poeta evoca lo stadio larvale della Vanessa Io, con un sentimento misto di stupore e pietà: «Meditiamo i villosi prigionieri / senza ribrezzo, con pietà fors’anco, / se pietà di lor vita oscura e prona / non dileguasse la speranza certa: / il guiderdone del risveglio alato» (vv. 26-30). I bruchi sono esseri «famelici», che passano il proprio tempo a nutrirsi e a fare la muta (vv. 9-19), e la loro esistenza acquista significato solo grazie alla speranza di divenire, in futuro, farfalle.
Prima di poter compiere la bellissima metamorfosi, i bruchi devono attraversare incolumi lo stadio intermedio, che Gozzano descrive nella poesia Delle crisalidi. Dopo aver trovato uno spazio idoneo all’interno della casa del poeta, ogni larva si avvolge nel proprio bozzolo: «Al soffitto / agli scaffali al dorso dei volumi / famosi, alle cornici delle stampe / financo – irriverenza – al naso adunco, / alla mascella scarna del Poeta, / ovunque la mia stanza è un scintillare / di pendule crisalidi sopite» (vv. 60-67). I bruchi conquistano con indifferenza ogni spazio umano che sembra adatto alla loro sopravvivenza: non si curano dell’importanza dei volumi, né si preoccupano di sfregiare il busto di Dante.
La prima sezione del poema non si conclude – come si potrebbe presumere – con una poesia dedicata alla Vanessa Io, ma si interrompe con la descrizione delle crisalidi: una situazione sospesa, di silenziosa attesa. Nella casa del poeta il tempo sembra smettere di scorrere: «Veramente la mia stanza modesta / è la reggia del non essere più, / del non essere ancora» (vv. 86-89). È la vita stessa a essere sospesa: gli ospiti della stanza non sono più ciò che erano, e non sono ancora ciò che saranno. O meglio: ciò che potrebbero essere.
La prima poesia della seconda sezione, Della cavolaia. Pieris brassicae, è incentrata su un lepidottero «volgare», la cavolaia per l’appunto, il cui bruco è «flagello delle ortaglie» (vv. 6-9). E mentre il lettore, deluso dalla mancata metamorfosi della sezione precedente, crede di potersi finalmente stupire leggendo la descrizione di una farfalla, il poeta avverte: «Se tutte si schiudessero, la Terra / sarebbe invasa d’ali senza fine. / Ma gran parte ha con sé, già nello stato / di bruco, i germi della morte certa» (vv. 18-21). Il bruco della Pieride è preda del Microgastro, imenottero che deposita le proprie uova all’interno della larva, la quale a sua volta non si accorge dell’organismo che vive nei propri tessuti. Non da tutte le crisalidi uscirà una farfalla, da alcune si librerà uno sciame di imenotteri: neanche in questa poesia la metamorfosi è certa. Per fortuna, le altre crisalidi possono compiere l’ambita trasformazione. Tuttavia, una parte delle farfalle, avverte Gozzano, va incontro a un altro terribile destino, perché volando oltre gli orti della campagna, si ritrova nel centro delle città, ambiente non adatto a ospitare questi insetti: «Grande parte è prigioniera / del chiuso laberinto cittadino; / e nel triste detrito che raccoglie / la scopa mattinale delle vie / biancheggiano falangi d’ali morte…» (vv. 130-135).
Le farfalle, portatrici di bellezza, sono creature fragili ed effimere: la perfetta incarnazione della poesia. In questa trasposizione entomologica, Gozzano – in quanto poeta – si identifica nello stadio intermedio: L’amico delle crisalidi è il titolo di uno dei suoi componimenti sparsi. Come i bruchi famelici che osserva, l’autore – al suo stadio larvale, ovvero l’adolescenza – si è nutrito dei versi dei poeti del passato (Dante, Petrarca, Pascoli, D’Annunzio). Nel momento in cui scrive i suoi componimenti, invece, Gozzano sente di essere in una situazione di vita sospesa. Il poeta si sente inadatto a percorrere quelle tappe che portano all’età adulta: scrive di essere inadatto ad amare (si veda L’onesto rifiuto); non porta a compimento gli studi; non si riconosce nei valori borghesi della propria epoca, ma è consapevole dell’impossibilità di ribellarsi completamente a essi. L’identificazione con la crisalide è presente già ne La via del rifugio (in cui è descritto l’assassinio di una Vanessa Io), componimento d’esordio della prima e omonima raccolta del poeta: «Ma dunque esisto! O Strano! / vive tra il Tutto e il Niente / questa cosa vivente / detta guidogozzano» (vv. 34-36). Come riportato sopra, le crisalidi si posizionano su oggetti vari dell’autore, incuranti del valore simbolico che riveste, ad esempio, il busto di Dante. Allo stesso modo, chiuso nel suo bozzolo, il poeta trova il proprio spazio vitale nella letteratura, e nelle proprie poesie inserisce i versi di grandi autori senza preoccuparsi dell’irriverenza che i suoi contemporanei potrebbero notare in quest’operazione.
La poesia – così come le farfalle – è portatrice di gioia e di stupore, ma è al contempo misteriosa, delicata, labile. Per Gozzano è il filtro tramite cui guardare il mondo; in Del parnasso scrive: «Tutta l’arte / del maestro non è che la montagna / intravista dall’ala trasparente» (vv. 4-6). Come la montagna acquista bellezza grazie alle ali del lepidottero, il mondo acquista significato grazie alla letteratura. La poesia, che come la cavolaia si perde nel labirinto cittadino, può portare la meraviglia nella vita di quegli individui che sanno coglierne la bellezza. La poesia cerca di emergere in una società dominata dai valori economici borghesi: il rischio è quello di essere travolta dal «turbinio degli uomini», ed essere annoverata tra i «detriti» che vengono raccolti dai netturbini (Della cavolaia). È forse per questo motivo che la prima sezione de Le farfalle si conclude prima della metamorfosi finale: la crisalide può ancora farsi portatrice di speranza, proprio perché ignara della caducità della farfalla: «Oh la carezza / dell’erba! Non agogno / che la virtù del sogno: / l’inconsapevolezza» (La via del rifugio, vv. 41-44).
Enrico Bormida
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