In Grembo paterno c’è tutta Chiara Gamberale. Chiara + Chiara, lei e il padre, lei e i disturbi alimentari, lei e le presenze che sono anche le prime tracce della scrittura, lei e gli uomini. Poi, come una cosa a parte, lei e sua figlia, Frida, nel romanzo. Un blocco, una cosa diversa perché questa volta il legame con l’altro, nonostante le ambivalenze e gli errori, è più sferico, è un tutto, che ingloba anche le crepe e in quelle crepe lì ci passa per forza sempre e solo l’amore. È un ancora e ancora. E un mai, te lo giuro amore mio, mai. Su tutto questo prendono forma i personaggi: Adele, la voce narrante, Rocco, suo padre, Teresa, la madre, la piccola Frida e Nicola, il pediatra di cui Adele si innamora. E la storia, che comincia dalla fine, quando nel cassetto richiudiamo anche le immagini, il letto è vuoto ma doveva andare per forza così.
Una fine che ovviamente è solo un inizio, e rimonta indietro, verso un altro paesino di provincia, sotto una montagna che ha il nome di una favola, il Monte Panettone, il Pratone dove si facevano le scampagnate, un corso, lo struscio e la casa paterna. In questo caso doppiamente paterna: perché il padrone di casa allora, appena all’epoca dei genitori di noi quarantenni di oggi, era l’uomo e perché, in quella casa, il padre di Adele è la misura dell’amore, un amore che ti soffia sempre sul collo. E così, pezzo a pezzo, scopriamo il dramma familiare, di quel tipo di famiglia intrinsecamente dolce e intrinsecamente feroce. Lì, dove la volontà di stare insieme e di mantenere fede a delle promesse che ci hanno convinto che dovevamo per forza assumere, era più forte di tutto il resto. Sufficiente a soffocare tutto il resto. Solo che Adele quel tutto il resto lo assorbe fino ad ammalarsi. Indietro, nella clinica dove si cura. Indietro, fino a quel gesto d’amore del padre di cui solo oggi capisce appieno il senso, provando una tenerezza infinita. È da quel gesto che Adele comincia non a guarire, perché guarire non importa (la guarigione è solo una metafora di una società basata sulla finzione), ma a riappacificarsi. E il gesto d’amore d’allora e la comprensione di oggi illuminano quello che le sta accadendo, la sua storia con Nicola. Poi la nascita di Frida, che ora, mentre il romanzo sta per concludersi, è lì con lei. In una mattina zitta “a indovinare bene, indovinare male”.
I personaggi si gonfiano e si sgonfiano, i pensieri di Adele seguono traiettorie diverse, si congiungono e disgiungono, e quello che resta è una massa di fragilità che Adele ha subito inconsapevolmente e tragicamente ma che comincia ad attraversare proprio mentre sembra che gli stia scorrendo ancora addosso. E Gamberale ci dà ancora un’altra versione di questa intuizione forte che porta avanti come scrittrice: guadagnare una perdita. Dove la fragilità può anche essere una cosa meravigliosa, proprio così.
Questa è la storia di una “senzaniente”, il soprannome con cui in paese chiamano suo padre. “I Senzaniente continuavano a chiamarci, per via dei miei nonni, i genitori di mio padre, che dopo la guerra il poco che avevano se l’erano perso”, così inizia il romanzo. Una parola esatta, quasi struggente, che mi ha portato nel posto lontano da cui provengo: il buco scuro della bottega dove mio padre aveva aperto la cassa e aveva appena rubato. E in quel buco, la nonna mentre passa la pezza imbevuta di alcol sulle mani del figlio prima di pungergliele, perché non si ruba e perché non lo devi più fare. Il buio in cui si fa il pane, e si impasta la vita. Il buio dove le scarpe si risuolano quando si consumano. Il buio dell’armadio dove gli altri, i padroni, nascondevano la carne. Il buio dei morti di fame, e poi risalirlo quel buio, “giorno dopo giorno dopo giorno” come scrive semplicemente e meravigliosamente Gamberale, in modo storto, per schivare i colpi di cinghia e i piatti di fagioli che volano, con la pertica che ti aiuta a saltare le pozze che sono le uniche gite al mare, a saltare sulla vita di strada, sulla bottega accanto, quella del macellaio che è un malavitoso, senza farsi inghiottire, e giorno dopo giorno dopo giorno, lui, già capofamiglia prima ancora di essere bambino, diventare quello che doveva essere a tutti i costi, un ragazzo, un marito, un padre, un gran dottore, amato da tutti. E sotto, dentro, giorno dopo giorno dopo giorno, “padre per davvero”. Eppure, continuare a divorare il piatto come quando dentro non c’era niente. E mia madre teneramente lo segue con gli occhi per dirgli piano, mangia lentamente. Perché ha ragione Adele, ed ha ragione Chiara Gamberale: in un angolo si resta sempre senzaniente. Ed è una sostanza che arriva fino a te, “dall’ombelico grande all’ombelico piccolo”, come è successo ad Adele.
Adele, dopo la bulimia, dopo la clinica Lago e il reality, dirige una trasmissione televisiva sugli adolescenti, Adelescenza. In qualche modo lei vuole rimanere nell’adolescenza. Ma ovviamente non nel senso di quell’espressione così abusata e banale di “eterno adolescente”, che sta per immaturo. Adele vuole restare adolescente come tutti noi che non facciamo finta di essere cresciuti, ma sappiamo che da qualche parte restiamo fermi lì, in una età non troppo lontana dall’adolescenza. Perché la vita la trascina via l’adolescenza. E per Adele è accaduto tutte le volte che lasciava qualcosa, per andare avanti, anche mentre continuava a tenerla tra le mani quella cosa o quel qualcuno; anche quando era ammalata di bulimia, anche quando lasciava i ragazzi, proprio nel momento in cui tutto cominciava, anche ora con Nicola, che con le parole, quelle che ammaliano ed ingannano, vuole per forza farle dire addio alla bambina piena di rabbia che è stata. Ma Adele ha bisogno di farlo a modo suo, in realtà l’ha già fatto tante volte. È successo quando è nata Frida. Ma soprattutto quando Adele capisce di averlo fatto senza indossare maschere, senza cancellare, senza fare finta di chiudere il cerchio, di essere guarita, di essere cresciuta. Nell’unico modo possibile: continuando a indovinare bene e indovinare male.
Adele ha una figlia che è solo sua, tutta sua: Frida, nata da un donatore di seme, con gli occhi neri di un padre che nessuna delle due, né Adele né lei, conosceranno mai. Forse è così per colpa di Rocco e del modo sbagliato in cui l’ha amata. O forse perché lei ha deciso così, anche se con Nicola tutto potrebbe cambiare. Adele ha voluto saltare quello che sta in mezzo, la vita adulta, la vita da coppia genitrice, quella che, senza che neanche te ne accorgi, finisce per riprodurre quella dei tuoi genitori, quella dei silenzi e delle presenze, quella che l’ha fatta ammalare. Ha evitato di servire il piatto come faceva la madre, plaff; ha evitato l’intimità di un bacio troppo tenero che fa soffrire più di qualsiasi furia; ha evitato la storia di una passione che da qualche parte si è già spenta.
E l’ha fatto tutte le volte che ha scelto il vuoto proprio mentre sembrava che i suoi atti fossero esatte compensazioni. Adele non vuole riempire nessun vuoto. Non lo vuole riempire con Frida, non lo vuole riempire con Nicola, non lo voleva riempire con il cibo. Non voleva riempirlo con le parole che dopo la prima mestruazione cominciano a diventare incontrollabili, troppe perché a quelle parole corrispondeva forse solo di nuovo la necessità del silenzio, di essere ascoltata dai suoi genitori, da suo padre.
Eppure, tutto quello che ha evitato, la “vita bugiarda degli adulti”, l’ha comunque ruminata e vomitata. Ci ha giocato per quarant’anni. Per quarant’anni si è fatta “affamare da un uomo”. E, anche se non l’ha replicata, ha finito per essere l’amante di un uomo sposato, finisce ad occupare il posto dell’amante di suo padre, per capire non quella se stessa bambina che non voleva lasciare andare il padre, ma le ragioni per cui suo padre non avrebbe mai lasciato sua madre. In un parallelismo tra il suo rapporto con il padre e quello di Nicola con sua figlia, perché la vita anche quando non lo vogliamo si ripete. Solo può smettere di ripetersi se capiamo qualcosa in più e cominciamo ad inventarla davvero la vita.
Il grembo è una parola troppo materna, per essere profanata così, per appartenere interamente al padre. Troppo materna per credere che quando Adele avrebbe voluto solo perdersi nel grembo paterno ed annegare nel latte di suo padre, stia dicendo tutto, proprio tutto. C’è una parte che manca, un pezzo della storia, un frammento di confessione di cui forse nemmeno Adele è cosciente. Ho provato a trovare il posto di Adele nella casa dell’infanzia. Ho sentito tutto quello che il padre le ha rubato, e tutto quello che le ha dato. La pressione e il fiato sul collo. Tutti gli eccessi dell’amore, quella parte di troppo, necessariamente feroce, necessariamente furiosa, che lui le ha riservato. Eppure.
Gamberale si arresta su questo rapporto, sull’amore di una figlia per il padre, quest’amore che Freud ha descritto in modo così approssimativo, lasciandoci in eredità quello stupido cliché secondo cui le figlie femmine stravedono per il padre mentre i figli maschi si innamorano delle madri. Ed è come se fossimo vittime di questi cliché piuttosto che dei meccanismi incoscienti che la psicologia cerca di descrivere. Questa operazione di distrazione dalle pulsioni che sicuramente non conosciamo ancora abbastanza comincia da subito. Quando nasci e ti dicono che hai la fronte di tuo padre, e ti chiamano mammone solo perché sei un bebè tra le braccia della madre. Ma quando i ruoli di padre e di madre si ridefiniscono, se fossimo capaci di bucare quegli stereotipi, di riempire quei passi che sembrano inevitabili, con i nostri desideri, forse anche le interferenze cambierebbero e quei meccanismi complessi che danno corpo e voce alle nostre pulsioni, non sarebbero solo complessi di Edipo e di Elettra.
Ed è quello che prova a fare Gamberale: andare oltre l’attrazione primitiva di Adele per suo padre. Anche se lo sa, lo scrive, non è facile “liberarsi dei vizi”. In realtà li attacca da tutte le parti. Rocco aspettava l’erede, il maschio, ma poi è arrivata la figlia femmina. Non la trascura, non la mette da parte, come una bambolina, anzi la mette al centro, e gli passa il messaggio che avrebbe consegnato al figlio maschio: devi fare meglio di me, devi prendere tutti dieci, ti devi laureare, nessuno deve più chiamarti senzaniente. Il padre si rivolge a lei con una furia primitiva, come ad una donna già fatta, come non si rivolge più a sua moglie, che essendo moglie ha smesso di essere donna. La gonna è troppo corta, ti pitti troppo gli occhi. Ma è anche capace di compiere il gesto più tenero e paterno che ci sia, quando lo ritroviamo spaesato nella Clinica Lago davanti alle telecamere del reality. Ma soprattutto Chiara-Adele fa una confessione coraggiosa (per la quale non bisogna assolutamente perdere questo romanzo): “Mio padre non avrebbe neanche potuto immaginare di infilarsi sotto le coperte con me. Eppure, anche lui come il fratello di Gloria. Mi entrava da tutte le parti”. Eppure, Adele capisce che la prepotenza di volerlo con sé, di volere suo padre tutto per sé, proveniva da lei.
Eppure, quando cerco il posto di Adele in quella casa la vedo, invece, intrappolata in quell’andirivieni della madre, Teresa, in quel suo giro a vuoto, su cui la voce narrante torna e ritorna. In cui Teresa sembra paralizzata per sempre. Teresa una donna qualsiasi che ha sposato un uomo qualsiasi. Il padre di Adele ora ha fatto i soldi ed ha aperto un supermercato nel paese. La madre fa la casalinga, cucina come se sapesse fare solo quello, e pulisce come se sapesse solo pulire e rassettare. Il sorriso gli si spegne sul volto ma nessuno lo vede eccetto Adele, non ha più voglia di prepararsi, fa la passeggiata sul corso con la mantella sul pigiama, ma nessuno lo vede eccetto Adele. Gli occhi di Adele si fermano sempre lì, su di lei, che apparecchia e sparecchia, senza riuscire a sfamare nessuno, anzi rendendoli sempre più affamati.
La madre che non ha saputo o potuto fermare il marito. Non è stato Rocco a fare di sua figlia la donna di casa. In fondo, anche se Adele forse non lo vede, è la madre che l’ha messa davanti, in quella complicità perversa a cui quella cultura costringeva le madri. È la madre a mandarla da Rita, l’amante di Rocco, quel giorno che spacca in due il romanzo. Ciò che più fa male e quello che è meno ingombrante, ritirandosi dalla scena: la madre, la donna che mai e poi mai sarò, la donna che devo proteggere, la donna che devo in qualche modo risarcire. Il latte paterno che Adele vorrebbe succhiare è sempre latte materno, quel latte che Rocco non ha ricevuto da sua madre, che era troppo povera e secca. Una madre che non ha potuto allattare suo figlio. Ed un figlio che non ha imparato dal grembo materno.
E allora il grembo paterno è solo quel posto che sta prima, quando ancora non capivamo niente dell’amore, e ci legavamo; dove succhiavamo senza sapere cosa; dove non sapevamo niente di niente, mentre imparavamo. Dove abbiamo imparato una cosa essenziale, quella intorno a cui si forma tutto il resto, anche le parole: il respiro dell’amore. Lì dove entrambi, madre e padre sbagliamo se non siamo capaci di essere ognuno il ponte che conduce verso l’altro. Perché in fondo in quel grembo quasi esterno ci siamo dentro tutti: madre, padre, figlia, figlio.
Silvia Acierno
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