Anno 1 | Numero 7 | Aprile 1998

Qualche mese fa (all’inizio del 1998, ndr), all’Istituto Cervantes di Napoli è stato presentato l’ultimo libro di Quim Monzó, Guadalajara, alla presenza dell’autore. In tale occasione il vasto pubblico, che lo ha letteralmente tempestato dì domande, ha scoperto con sorpresa che il buon italiano del celebre scrittore ha origine nella sua infanzia, quando la radio spagnola era meno anglofona e trasmetteva con frequenza le nostre canzoni. Erano tempi di un franchismo ancora duro, e tempi duri, quindi, per gli intellettuali catalani, costretti a lavorare in esilio, nella clandestinità o scendendo a compromessi con la lingua del potere. Man mano, però, le maglie della dittatura si allentavano e si andava formando anche una nuova generazione di scrittori, definita “Generació dels 70” perché in quel decennio, che vide la caduta di Franco e l’inizio del regime democratico, iniziarono a pubblicare. Giovani, questi scrittori erano nati tutti dopo la Guerra Civile, talvolta a una distanza tale che la loro cultura era davvero diversa da quella delle generazioni precedenti; se la loro lingua materna rimaneva il catalano, a scuola e nei circuiti ufficiali si parlava esclusivamente in castigliano, così che, se anche assimilavano la tradizione letteraria autoctona, lo facevano da autodidatti. In compenso, la loro formazione era più cosmopolita, anche grazie al boom dei mezzi di comunicazione di massa; meno legati alla cultura francese, lo erano a quella anglosassone; definitivamente smarrite le radici rurali della catalanitat, la loro cultura era decisamente urbana.

Fra tali scrittori, naturalmente, troviamo Quim Monzó, che nelle note biobibliografiche fomite per un’importante Antologia de la narrativa catalana dels 70 ha scritto di sé: “Urbà fins el moll de l’os – mal que sia per contradir ecologistes i macrobiòtics -, si algun dia es perd no el trobareu pas dalt d’una muntanya”. (Urbano fino al midollo – non foss’altro per contraddire ecologisti e macrobiotici -, se un giorno dovesse perdersi, di certo non lo trovereste in cima a una montagna.) Di conseguenza, oggetto delle sue narrazioni sono soprattutto le relazioni umane e le strane circostanze che si producono nella vita delle grandi città. Monzó ne coglie gli aspetti più assurdi e surreali e li mette in scena, con una scrittura penetrante e un ritmo narrativo serrato.

Di fatto, ciò che rende straordinari i suoi lavori è proprio la capacità di parlare di sentimenti reali e delle incongruenze della natura umana attraverso vicende assolutamente paradossali. Per esempio, tra i racconti della sua ultima raccolta ce n’è uno, delizioso, in cui un uomo riceve delle rivelazioni di singolare importanza che, da buon profeta, decide di annunciare immediatamente; al momento opportuno, però, dimentica ciò che ha da dire; l’episodio sì ripete poi in condizioni diverse, persino in punto di morte, quando cerca di comunicare qualcosa al figlio, ma i rumori esterni glielo impediscono – ed è solo uno dei tanti casi in cui il destino si beffa dei personaggi di Monzó -. In seguito, il dono profetico passa al figlio, il quale invece riesce puntualmente a diffondere ciò che gli viene rivelato in sogno, tanto che la gente cerca di ottenere da lui le previsioni più strambe. A un certo punto, al poverino viene annunciata l’ultima profezia: egli non riceverà mai più rivelazioni; sconvolto da questa notizia, che pure aveva più volte auspicato, la tiene per sé e si apre per lui un lungo periodo di frustrazione, in cui viene preso in giro o rimproverato per il suo silenzio; il povero profeta, umano, troppo umano, decide così di provocare lui stesso un evento drammatico, dopo averne annunciato il pericolo.

Anche gli altri racconti di Guadalajara mettono in luce le debolezze umane e il fatto che la vita proceda per lo più diversamente dalle nostre previsioni e dai nostri auspici. In alcuni racconti, ciò viene accentuato dal loro stravolgere storie entrate a far parte del patrimonio culturale collettivo: gli eroi vengono privati della loro eccellenza e la narrazione dei fatti segue una logica diversa, in fondo più razionale. Così, Ulisse e i suoi uomini non riescono a portare a buon fine lo stratagemma del Cavallo di Troia, per motivi assolutamente verosimili e alquanto “bassi”, Robin Hood, dopo aver rubato ai ricchi per aiutare i poveri, si vede costretto a fare il contrario, per sollevare le sorti dei poveri e ricchi, caduti nella miseria più nera. Con notevole maestria, senso dell’umorismo, fantasia e un originale realismo, Monzó ci regala momenti di grande divertimento e di vero piacere della lettura. E non si preoccupi il lettore per lo strano titolo: nel provvidenziale incontro al Cervantes l’autore ha spiegato che esso scaturisce da un gioco con le tantissime versioni della canzone messicana, a cui ciascun racconto si riferisce sottilmente; tuttavia, la mancata partecipazione al gioco non sottrae nulla alla godibilità del testo.

Valentina Ripa

 

Quim Monzó (Barcellona, 1952) ha scritto canzoni e sceneggiature di film, è stato giornalista radiofonico, collaboratore di “El Pais” e mattatore di programmi televisivi, e viene considerato fra i più significativi scrittori catalani viventi. Fra i suoi libri, tradotti anche in numerose altre lingue, ricordiamo le raccolte di racconti Olivetti, Moulinex, Chaffotteaux et Maury e Il perché di tutto sommato, e il romanzo La magnitudo della tragedia, pubblicati in Italia da Marcos y Marcos.
Fonte: ibs.it

In libreria

Quim Monzó
Guadalajara
Marcos y Marcos, 1997
Collana: Le foglie
Traduzione di G. Maneri
176 p., brossura
€ 8,26
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