“Non avviene tutti i giorni di incontrare ciò che è fatto per darvi la giusta immagine del vostro desiderio” (Lacan)
Mia nonna era sarta, figlia di sarti. Sin da ragazzina aveva imparato a tagliare e cucire pantaloni e giacche da uomo. Le volte che andavo da lei, nella loro casa nei Visoni, la zona più antica del paese, le nostre conversazioni avvenivano per lo più intorno alla macchina da cucito, che lei continuava ad usare per fare la piega e l’orlo e rimodellare vecchie giacche e gonne. Provavo ad immaginare la sartoria: un basso con le porte finestre che davano sulla strada, la strada polverosa di Visciano, le curve da voltastomaco per arrivarci, i tabernacoli per proteggerti ad ogni tornante, di una delle tante vie crucis. Poi la stanza ampia, il padre e tutti i figli e figlie che cucivano sotto la sua direzione. La polvere di gesso che vorticava e mia nonna che non avrebbe mai voluto andarsene di lì. Manipolavo i rocchetti di tutti i colori che aveva in quelle scatole portacucito di legno che si aprivano a fisarmonica su un carrellino e i suoi racconti di storie di famiglia mi avvelenavano e mi entravano nella pelle. Poi sarei tornata a casa e avrei chiesto all’altra nonna, discretamente, se era tutto vero, per contrastare i fatti e amarle entrambe anche se loro si odiavano. La macchina da cucito era nella veranda, una specie di ballatoio, accanto alla stanza da letto. La stanza da letto era sempre all’ombra, l’armadio che occupava una parete intera, visto aperto poche volte, con quei vestiti che lei voleva regalarmi dritti nelle loro buste di cellofan. Quella stanza in cui una volta, alla penombra fresca mi raccontò un’altra storia quella dei ferri per la calza e dei loro usi sul corpo femminile. Con una brutalità che ho preso in prestito. I vestiti nell’armadio non li ho mai presi, e di mia nonna paterna non possiedo neanche uno straccio, solo i suoi racconti, le sue ossessioni, il suo nome. E quel vortice di gesso rosa in cui è esploso e si è disperso quel tempo mitico.
Perché dei fili, delle stoffe, dei fiori che si applicavano su un cappottino, o sulla falda di un cappello, restano le parole. Ed è nelle parole, nei racconti che questa volta Maria Luisa Frisa cerca la moda, il suo valore, il suo significato e le sue idiosincrasie. E nel cucire i racconti degli altri, cuce la sua storia, le sue curiosità e le sue conoscenze, i sogni e le disillusioni di questa signora in divisa, gonna a ruota, calzino nella scarpa decolleté, bracciali e anelli pesanti e un ciuffo punk brizzolato, appena accennato, resto del meraviglioso desiderio di cambiare il mondo.
Ci sono libri che sono fatti per stare assieme, che si chiamano. Ne La donna che scrisse Frankenstein di Esther Cross, ritroviamo quella figura femminile lontana, eppure, così vicina, che è Mary Shelley, l’autrice di Frankenstein, del dottore e della sua creatura che portano lo stesso nome. Cross ci racconta la sua storia in poche pagine, poco più di un centinaio, con poche pennellate, eppure quella vita, che si è bruciata come un astro, è tutta lì. Non c’era bisogno di aggiungere altro. Se dovessi scegliere una parola per riassumere questa storia, non avrei dubbi: la parola sarebbe dissezione. Quella che praticavano i grandi luminari nella Londra di metà Ottocento sui tavoli di anatomia degli ospedali e nelle loro case. Avevano bisogno di cadaveri per praticare le incisioni e prepararsi alle operazioni che avvenivano senza anestesia, per investigare la morfologia degli organi nascosti nei nostri corpi. I tombaroli che trafugavano cadaveri dalle sepolture ancora calde; la notte, le ombre, i traffici sporchi, la scienza che avanza ma è ancora esibizione e fenomeno da baraccone; la realtà che è una storia gotica; la storia che avanza eppure sente ancora di quell’Egitto in cui i sarcofagi venivano saccheggiati, i corpi eviscerati, e poi sepolti con tutte le reliquie. Si racconta che Mary Shelley portò con sé, il cuore del marito, il poeta, sepolto altrove nel cimitero acattolico di Roma perché, quando sarebbe giunto il momento, fosse sepolto con lei. Organi e membra trapiantati e assemblati in un corpo altro, un corpo già cyborg (nel senso in cui lo userà la filosofa statunitense Donna Haraway), ancora più umano perché disumano (Mary Shelley scardina già la questione dell’identità), formano il racconto, che è uno strato ulteriore della biografia della scrittrice.
Nei racconti selezionati ed interpretati da Frisa, questa storia della moda comincia da un paio di forbici che praticano una incisione, una ferita nella stoffa, che la aprono come un corpo su un tavolo di anatomia (“Forbici” di Kim Fu). Ma Frisa già ce lo aveva detto prima, nella prefazione: il corpo vestito, gli abiti sono l’architettura più prossima al corpo, “è quasi impossibile pensare al corpo e alle sue evoluzioni se non nella relazione che intrattiene con gli abiti”. Il primo racconto di Paola Colaiacono, su Leigh Bowery, performer degli anni Ottanta, nella Londra degli eccessi, inquieta e ribelle, lui il più eccessivo ed eccentrico, è già una dichiarazione d’intenti. Bowery che ha sperimentato con la moda e il corpo, protesi e glitter, ci è introdotto alla fine della sua vita, morirà di AIDS, nudo, assolutamente e violentemente nudo, corpo livido e bruno in una delle diverse tele in cui Lucian Freud lo ritrasse. Come se tutti quegli eccessi siano diventati uno strato di pelle, una pellicola, il livore di un corpo esangue sul tavolo anatomico del nostro sguardo.
Il corpo e la sua dissezione e smembramento in storie, simboli, fantasie e desideri lega I racconti della moda di Frisa al Corpo, umano di Vittorio Lingiardi, saggio anch’esso appena pubblicato da Einaudi. “Ho voluto attraversare il corpo, organo per organo, per costruire una creatura composita, un po’ il mio Frankenstein”, scrive Lingiardi. Sulla copertina avrebbe voluto l’immagine dell’apostolo scorticato (di nuovo una forma di dissezione) che si avvolge nella sua pelle, portata come una stola leggera. Organi che si tirano fuori, si estraggono, si estirpano come vestiti. In una mappa in cui la moda che è sempre stata il dettaglio, feticcio, la traccia di un’immagine segreta, diventa carnale, corporale mentre il corpo si fa dettaglio (Lingiardi lo chiama “corpo dettagliato”, che è una versione del “corps morcelé” di Lacan), organo, cuore. In una rivoluzione in cui il corpo è un organo, i suoi organi, mentre la moda, in apparenza, lo strato più superficiale di noi stessi, è essa stessa corpo, quello che sta sopra e quello che sta sotto la pelle: una terminazione psichica. In una rivoluzione in cui l’involucro e il contenuto, nudo e vestito si scambiano di posto, entrambi manifestazioni di una personalità, entrambi tracce di una identità che sta sempre fuori, si trapianta continuamente. Del resto, la moda subisce ed alimenta questa ossessione contemporanea per l’embodiment, gesto compulsivo-ripetitivo di una cultura intera. Lingiardi spiega molto bene questa doppia direzione della contemporaneità tra valorizzazione dell’embodiment e virtualizzazione delle relazioni, “sospensione tattile”, in questo paradosso tra assenza e presenza, umano e post-umano.
Frisa chiude la sua collezione di racconti con una poesia di Mary Simmerling, filosofa e poetessa, What I was Wearing. Cosa indossava la notte del 4 luglio del 1987, aveva diciott’anni, quella notte fuori del campus quando fu vittima di un’aggressione sessuale. La t-shirt bianca, la gonna di jeans sulle ginocchia, un reggiseno di cotone ed uno slip spaiato, scarpe da tennis bianche, orecchini d’argento, e un lip gloss. Niente altro che questo, vestiti semplici di una giovane ragazza qualsiasi. Vestiti che si fanno memoria somatica, corpo unico di quella ragazza al primo giorno in quell’università di Los Angeles e corpo collettivo, di tutte le donne vittime di violenza. È un elenco di vestiti, come Lingiardi elenca gli organi per ricercare ordine, senso e consolazione. “L’elenco è una forma di esplorazione e conoscenza a cui, lo avete capito, non riesco a resistere”, scrive lo psicoanalista. Gli elenchi delle parti del corpo che Lingiardi invoca come una specie di mantra, quello del poeta Walt Whitman e quello di Joyce che fu la mappa per l’Ulisse sono sistematici, eruditi, cerebrali, organizzati. Dell’elenco dei vestiti scelto da Frisa come una specie di emblema mi raggiunge la spontaneità del ricordo, sempre ermetico e disarticolato nella sua semplicità e immediatezza. Del resto, Frisa già aveva scelto nel commento al racconto “Un cambiamento nella moda”, di procedere in maniera libera, un elenco di frammenti senza ordine preciso. Un percorso emotivo.
Nel racconto di bell hooks, il vestito, il pull di cachemire portato a nudo, o la biancheria intima sono una zona erogena, una mucosa. La divisa (“Il fascino della divisa” di Jhumpa Lahiri e “Da Woodstock a Hollywood”), l’uniforme sconfina nella conformità e poi difformità del corpo, quando la divisa, giocando col tempo e ricodificando, introduce il disordine; la storia della moda è la storia delle riprogettazioni del corpo (“Un cambiamento nella moda”); i vestiti sono il pezzo di pelle sconosciuta su cui sperimentare una nuova sessualità, “per la felicità del corpo” (“I vestiti del notaio”, racconto inedito di Michela Murgia); l’eleganza è uno sforzo di autocoscienza (“Il guardaroba delle donne”); i vestiti sono il sunto di un’autobiografia per vestiti (“I jeans baggy”); il taglio degli abiti addomestica gli umori, depura la linga, fissa, (“Completo sontuoso con calzoni sportivi” di Gianna Manzini); quando il fashion diventa una forma di malessere (“La scala mobile”); quando la moda veicola la fluidità di genere (“Una selezione dal Petronio”); la cravatta “non è simbolo ma soggetto corporeo” (“Tie society” di Tondelli); quando il vestito è il corpo stuprato ( “Dove vai, dove sei stata”). “Sul mio corpo” è il titolo che Ratajkowski dà al suo libro, a tracciare la contiguità del suo mestiere, la mannequin e il suo corpo. La linea tra abito e corpo è completamente sfumata.
Entrambi Frisa e Lingiardi terminano le loro raccolte citando Roland Barthes, che con quella sua sensibilità erudita ha fatto anche della scrittura un organo del corpo. Quello di Lingiardi è un omaggio a Barthes perché il corpo di cui ci parla nel suo libro è rappresentato soprattutto dall’idea di Barthes del corpo ritrovato attraverso il racconto. E Frisa chiude sui Frammenti di un discorso amoroso, altra opera di Barthes, sul corpo imbalsamato nell’abito, che è quasi un presagio sinistro del destino del corpo che veste, quel corpo che vivendo muore e che, anche grazie all’abito, “morendo, vive” (come scrive meravigliosamente Lingiardi).
Ma più di ogni altra cosa, entrambi cercano, Frisa la moda, Lingiardi il corpo, nei racconti, nei libri, nelle antologie, nelle parole degli altri, nella loro collezione, nell’intreccio delle storie, nel ritmo dei paragrafi, nel tono della voce, nella fragranza di un verso, nelle diffrazioni delle parole che avranno ombre che non ricalcano la forma dell’oggetto. Perché alla fine della storia le parole sono il fascio luminoso, lo sguardo che ci rende visibili.
Da quel dettaglio applicato al nostro corpo, la moda diventa una forma carnale, vitale, di riappropriazione del corpo, di liberazione. Un concetto, una battaglia, qualcosa di sempre più lontano, una visione d’insieme, un racconto… E in un cerchio insondabile che non si finisce mai di percorrere fino all’ultimo battito, la parola torna ad essere suggestione, fantasia, desiderio e si trasforma in corpo tattile, abito…
Perché le mode passano ma è nel racconto del nostro corpo e di come lo vestiamo in cui avvengono le trasformazioni, non le performances; lo spazio in cui come dice Louise Bourgeois “trasformo l’odio in amore”.
Silvia Acierno
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