Piero Chiara è famoso per le sue storie invariabilmente riflesse negli specchi d’acqua del Lago Maggiore, tra Luino ed il confine ticinese.

Il cappotto di astrakan è un’eccezione.

E se dovessi associarne l’atmosfera ad un elemento naturale, sceglierei il vento piuttosto che l’acqua. Non un maestrale impetuoso, probabilmente, ma il tiepido favonio “che favorisce gli amori” disponendo le donne all’amplesso, descritto nelle pagine di mezzo ambientate a Losanna; o il simbolico levante primaverile che sembra dare l’abbrivio al racconto, spingendo il protagonista fuori dal suo ovattato mondo di provincia verso Parigi, a bighellonare senza una meta e senza uno scopo specifico (che non sia quello di tornare dagli amici del solito bar di paese con il bottino di una storia da raccontare). O il grecale improvviso, presago di malinconie autunnali, che dopo una serie di circostanze rocambolesche lo costringe a ritornare frettolosamente in Italia, passando per la Svizzera da semiclandestino.

La storia gli accade infatti per davvero, scandita da una serie incredibile di coincidenze da feuilleton che l’artigianato narrativo dell’autore riesce a rendere verosimili: viene accolto in casa da una vedova parigina in virtù dell’incredibile somiglianza con suo figlio assente, Maurice; ne veste letteralmente i panni (tra cui il prezioso cappotto del titolo), gli “usurpa” inconsapevolmente la ex fidanzata, assiste a rivelazioni sconcertanti sulla figura e sui trascorsi del suo presunto sosia. Fino al colpo di scena finale, che si consuma quando il protagonista è già rientrato in Italia.

Tutta la narrazione è attraversata da un senso di fatalità, di fragilità e di impotenza: l’anonimo protagonista viene sballottato come un soffione inerme dai venti del destino, senza potervi opporre altra volontà che l’istinto di sopravvivenza. Eppure, proprio perché di un soffione si tratta, il “mood” dominante del racconto è improntato alla leggerezza e non al dramma: l’antieroe di Chiara sembra discendere più dal “Taugenichts”, dal perdigiorno romantico, che non dal farneticante inetto sveviano-pirandelliano, o dal tormentato eroe esistenzialista.

Pur sentendosi condannato ad una solitudine senza rimedio, sa godersi gli aspetti piacevoli della vita, di cui è assetato, e preferisce di gran lunga l’azione alla ruminazione psichica. Si sofferma a contemplare ciò che ha perduto senza capacità di rimorso. Affida le sue decisioni più importanti all’arbitrio della sorte, come nell’emblematico finale sospeso. Vive in lui, insomma, un riflesso sbiadito di quel Casanova di cui Piero Chiara fu studioso, biografo e ammiratore.

Da evitare il confronto con il film, che tradisce sia la “fabula” che l’essenza spirituale di un libro che ha sicuramente questo pregio: saper coniugare il disincanto della modernità, il suo fatale ottundimento emotivo, con un piacere antico e spontaneo di narrare che ha quasi un sapore settecentesco.

Emiliano D’Angelo