Tempo fa sentii un podcast in cui Dario Ferrari discuteva del libro di Antonio Franchini 🔗Il fuoco che ti porti dentro, e diceva qualcosa del tipo: Mi sono pentito di aver scelto di parlare di questo libro, perché Franchini che parla male di sua madre è un conto, ma se ne parlo io è quantomeno inelegante. Mi è tornata in mente questa frase quando mi sono dovuta mettere davanti a una pagina bianca a scrivere di 🔗Il coccodrillo di Palermo; parlare di Palermo senza essere io stessa palermitana è quantomeno inelegante.

Il romanzo di Andò si presenterebbe, per trama, come un giallo. Il regista Rodolfo Anzo, che da molti anni vive a Roma, tornato per cause di forza maggiore nella natia Palermo, si ritrova a dover tirare le fila, dopo dieci anni dalla morte del padre, di un compito che questi gli ha lasciato in eredità: restituire ai legittimi proprietari i nastri di alcune intercettazioni telefoniche che il padre ha indebitamente conservato.

Ma alla lettura, mentre Rodolfo vaga per una Palermo estiva in cui l’odore “di jacaranda e di giacinto” ti si appiccica addosso, questo romanzo ci si rivela per ciò che è.

Il coccodrillo di Palermo è un Libro dei Morti, che accompagna verso l’Aldilà non soltanto l’anima del defunto Rodolfo Anzo, ma la stessa città, che si crogiola e si nutre della sua atmosfera rarefatta e al contempo pesante, come l’aria impregnata di afa della città dove il mare c’è, ma è sempre troppo lontano.

Strafottenti posteggiatori abusivi, direttori di teatro, poliziotti non del tutto trasparenti, donne tanto affascinanti quanto fragili, giornalisti e magistrati, sono affondati e parte integrante di quell’amalgama colloso che vive per le strade e nei palazzi di una Palermo indolente che “si è sempre occupata più dei morti che di vivi”.

Il coccodrillo di Palermo è un romanzo che si fatica a descrivere senza rifugiarsi nell’ossimoro, come inevitabilmente ossimorica è la natura della città, sospesa tra immobilità e nevrosi, sonno e veglia, realtà e menzogna, tra fatto e finzione, come il suo coccodrillo.

La Palermo che si innalza da queste pagine è eterea e inafferrabile eppure estremamente materica, tattile, presente. Il romanzo di Andò è una critica feroce alla città e ai suoi abitanti, alle loro manie e idiosincrasie, l’indolenza e il sospetto; è un tributo postumo all’idea di Palermo che Rodolfo distrugge nel proprio nostos per le sue strade decadenti, nell’aria stagnante come stagnanti i rapporti che la percorrono; è infine una dichiarazione d’amore, o piuttosto il riconoscimento di un’attrazione che avviluppa a tiene avvinti: in fondo, le merde di cane sono le stesse, anche sui marciapiedi di Roma.

Solo l’arrogante può pretendere di distinguere il sonno dalla veglia, presumendo di farlo in modo chiaro, come se d’un tratto fosse possibile escludere d’essere già fuori dal gioco, anzi, dal tempo.

Vera Alemanno