Ne disparait que ce qui était nous
(M. Stepanova, En mémoire de la mémoire)
Quarant’anni e qualcuno in più, seconda metà della vita, anche se ti racconti la bugia che non si invecchia, che non si muore, che il futuro è solo un’ipotesi. Ilaria sale su un ring, tonica, allenata, in un kimono color oro, ricamato. È il giorno del suo compleanno, amici e familiari sugli spalti, ma lo sfidato, suo padre, non compare. Lei lo sapeva già. Perché lì sul ring Bernardini sapeva che ci sarebbe salita da sola, possiamo solo salirci da soli: gli avvenimenti che ci racconta sono solo i suoi ricordi, la sua storia, i suoi inganni e le sue verità. Sul ring, di fronte a lei ci sarà solo una costellazione archetipica: chiudere una fase per farne emergere un’altra. Teatrale, coraggiosa, Bernardini. Pronta all’inevitabile riattivazione di vecchie e nuove ferite: una regressione necessaria ma reattiva, non subita, e una progressione, anche, minima, come una sola lacrima, dolorosa, incompleta. L’unica di cui a volte siamo capaci.
“Mio padre si chiama Achille e non mi parla” è l’incipit del romanzo che Ilaria Bernardini ha chiaro in testa da tempo, da quando ha cominciato a comporre questa storia, anni fa, come racconta a Chiara Barzini. “Ma mère ne m’a jamais donné la main” è l’incipit di Asphyxie di Violette Leduc. Achille ha abbracciato, morso, sbaciucchiato (famosi i baci, quello da babbuino, i morsi, “quando eravamo piccoli, faceva la lotta, ci morsicava, rideva”), ha parlato di sistemi filosofici e politici, si arrabbiava anche, molto, diventava irascibile e violento se sbattevano le porte. Ci sono state le maratone di film, qualche viaggio, pochi. Poi si è negato ad Ilaria. Cosa manca davvero? Cosa mancava in fondo sin dall’inizio?
A Leduc, oltre al padre (è una “bastarda”) manca la madre (mon élegante, mon infroissable, ma courageuse, ma vaincue, ma radoteuse, ma gomme à m’effacer, ma jalouse, ma jouste, mon injuste, ma commandante, ma timorée…), anche se di quella madre cercherà a tutti i costi di disfarsi, di mettere a tacere la visione del mondo della madre. Manca il passato, sempre. Anche se ci diciamo basta, che il passato non ci nutre (“le passé ne nourrit pas”, continua a ripetersi Leduc), anche se vediamo assieme a Bernardini quanto è assurda la malinconia della malinconia.
Il padre della narratrice, in questa storia autobiografica che però non è un memoir, non le parla più da diversi anni, e, come accade quando qualcuno scompare dalla tua vita, come da una foto mossa, quel qualcuno finisce per occupare ancora più spazio proprio perché non lo vediamo, e più non lo vediamo più lo cerchiamo. Ilaria lo cerca disperatamente, ossessivamente, senza sosta. Ed è disposta a tutto pur di riaverlo, suo padre. Anche a scrivere un intero romanzo su di lui. Ci racconta che è successo qualcosa, dopo la pubblicazione di uno dei suoi precedenti romanzi, che a lui non è andato a genio che lei riportasse delle cose che dovevano restare intime o che non era d’accordo su come aveva descritto sua madre. Lei si è piccata, gli ha risposto con un passo e chiudo. E lui ha chiuso davvero, senza ripensamenti, senza darle nessuna possibilità di replica.
In realtà, se ha un senso indagare, quel rapporto si è rotto prima, quando i genitori hanno divorziato, e il padre si è fatto “una nuova famiglia”, e porta a spasso le “figlie piccole” (la famiglia che il padre ha con la madre di Ilaria è descritta con altre parole “in questa sua famiglia” “in questa sua casa”, come se fosse, in, dentro, questa, la più vera). Berardini accenna alla nuova famiglia in due, forse tre passaggi, senza troppe parole (suo padre non ha fatto le presentazioni) senza troppi giri, senza approfondire. Ma il dolore sta proprio lì, lì manca il respiro, lì dove non ci sono ancora le parole. Dove il fiume narrativo in piena di Bernardini si blocca, per diventare ancora più gonfio, più prolisso, per soffocare il dolore, anestetizzarlo a furia di parole, a furia di analizzarlo e ricominciare ad analizzarlo e poter scrivere a caratteri capitali: il dolore non esiste.
Forse mi sbaglio, forse non è proprio quello il punto del polmone, forse è anche quello, assieme al desiderio un po’ infantile ma così umano di essere la preferita (“ha otto figli da tre mogli diverse”), di avere una relazione privilegiata con il padre. Quella relazione privilegiata Ilaria la cerca, chiede alla madre, alla nonna, alle sorelle (che però non rispondono sempre, né volentieri), la ricostruisce, non ci rinuncia. Il padre, editore di riviste, è intelligentissimo ha preso tre lauree, ha imparato varie lingue. È bellissimo, fortissimo, con le maniche della maglietta arrotolate, come un certo attore o cantante americano, le Superga sfondate, i Levis colorati, bellissimo con e senza barba. Lei sente di essere come lui, anche lei arrotola le maniche della t-shirt, la sua faccia sulla sua. Come la nonna paterna Evelina, come suo padre Achille, anche Ilaria è distante, pratica la distanza, sceglie di non essere vicina quando potrebbe e così decide di non andare al funerale di Evelina. È stato lui a trasmetterle certe passioni, dal cinema alla filosofia; da adolescente Ilaria mette sulla minigonna il cappotto del padre, come una incestuosa Maria Schneider con quella famosa pelliccia spelacchiata sulla minigonna in quell’ultimo tango dell’amato Bertolucci (regista che Bernardini conoscerà, con cui lavorerà, che è di nuovo una figura paterna, un come-un-padre, o un padre idealizzato).
Loro due, Achille e Ilaria al cinema nel multisala a fare scorpacciate di film, loro due sul motorino di lui; e infine anche i guantoni di boxe che Ilaria ritrova per caso, con cui comincia ad allenarsi, mentre organizza questo match, erano stati un regalo di Achille. Il padre è l’allenatore, segreto che dal silenzio e dall’oscurità continua a muovere le pedine, le figurine delle diverse Ilaria, in un disegno oscuro. In fondo con il suo silenzio, la sua “scomparsa” la sta solo allenando a vivere, preparandola chissà, a quel suo modo misterioso, all’ultimo atto, a quel momento che tutti temiamo, quando diventeremo orfani.
Se Ilaria lo sta sfidando a un match, e questo romanzo è il suo invito, se questo romanzo è una sfida, è lui ad averle insegnato a sfidare; “a volte sfida dopo sfida, tirava l’alba e in pratica faceva un po’ come facciamo tutti, con la scacchiera fino all’alba, con la vita fino alla morte”. Lui l’ha allenata ad imparare a perdersi, abbandonarsi, a “coltivare la nostalgia”.
Il desiderio di una relazione esclusiva con il padre, quanto più frustrato dalla sua assenza, cresce: è sempre stata lei e solo lei, la vera destinataria di quelle frasi snocciolate da Achille, condensati di insegnamenti e riflessioni, “amarsi solo perché siamo imparentati non ha senso” o “il dolore non esiste”.
Di chi è questa prova di forza, la sua o la mia? Chi vince, chi perde? Ma dov’è Ilaria? È una specie di calco di suo padre che non riesce a staccarsi da lui? È solo una pedina, in una fila di sé, dei diversi sé che si sono succeduti, dalla bambina alla donna, dalla sirena al pugile.
Ci sono delle pagine molto belle in cui Bernardini si sofferma su suo figlio, lui che invece vede il nonno, va il cinema con il nonno proprio come faceva lei, lui a cui il nonno ha appena regalato un paio di guantoni, in una catena che non si può spezzare. Le ho sottolineate molto e per qualche giorno le ho lasciate nella stanza di mio figlio per fargliele leggere, mi ha detto che le ha lette, che non ci ha capito molto, chissà. Sappiamo così poco di loro o piuttosto non ci accontentiamo mai di tutto quello che cercano di mostrarci. Bernardini osserva crescere suo figlio, farsi adolescente, occupare spazio e peso. Le pagine sono riunite sotto il titolo “stare nel dolore”: dunque Bernardini smette di ripetersi il mantra del padre, “il dolore non esiste”, non si racconta una bugia, non fa la spavalda, schizzata verso la coscienza e l’età adulta che hanno tutta la fisionomia del padre. Ma non si lascia nemmeno invadere dal dolore, non scivola nell’opposto. L’incantesimo familiare è rotto e lei semplicemente “sta”. E sa che quella specie di “ammasso” che siamo con i nostri figli, quel tutt’uno svanisce poi: loro, i nostri figli, hanno i loro gusti, le loro parole, tutto quel sarcasmo. “se vivo nella melanconia del passato, che ne è di questo presente invaso dai ricordi? “l’abbandono avverrà, dell’amore resta un bagliore, “e poi ci toccherà pure morire”. Prima che quell’adolescente che ha sotto gli occhi torni ad essere di nuovo Ilaria e il rito di passaggio da mettere in scena, il suo.
In questo dolore “orizzontale” condiviso che non possiamo dirci, di figlia che diventa madre, di padre che è stato anche figlio, ci sono amore e unione. Ma anche rabbia e dolore. Decidere di non parlarle è come tapparle la bocca, come al bambino in copertina; è un gesto violento, insopportabile, questo negarsi, sottrarsi, ad un figlio poi. Tutte le parole del romanzo sono rabbia e tentativo di calmare quella rabbia, di giustificarla, di giustificarlo: che quello stesso gesto è stato subito dal padre come figlio e fratello.
I ricordi sono solo interpretazioni. Il passato ci nutre? In che senso? Cos’è il passato? In questo cono di memorie, dove più avanzi più è chiaro che ti lasci dietro solo la memoria della memoria, in fondo, mossa, come in una foto di Francesca Woodman, ci sei tu: non una pedina, ma una danza sfocata e le parole che rimandi giù.
Se i ricordi sono solo i ricordi della scrittrice, se il materiale è solo il suo, anche quello che sembra riguardare Achille, se in fondo Bernardini sta parlando della sua vita più che di quella del padre, cosa importa allora? E soprattutto cosa resta? Di che materiale è fatto il romanzo?
Di amore, forse; l’amore è il motore della memoria. Il desiderio di dimostrare il suo amore, la paura di ferire Achille, ma anche il desiderio di ferirlo come lui ha ferito lei. Di perdonarlo e di perdonarti Ilaria.
Silvia Acierno
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