L’antico indifferente cuore della terra covava nel buio, viveva in quei casolari diroccati, nelle rovine romane dimenticate, e proteggeva dal male, proteggeva da tutto.

Il fiore delle Illusioni di Giuseppe Catozzella mi ha portata per mano in un angolo del mio cuore dove restano intatti odori, colori, cieli, profumi, pietre e vallate. Quell’angolo di Basilicata, la mia terra, che ho conosciuto nelle estati da bambina in due luoghi remoti della Val d’Agri.

Pagina dopo pagina mi si sono materializzate davanti le rocce calde della fiumana, i pascoli, le viti, le spighe che graffiano le gambe, i campi mietuti e poi arati, le greggi in transumanza, le stalle, i prati disseminati di cardi e ortiche, le rimesse, i trattori, gli orti, la conigliera, il pollaio, l’oliveto e la vigna con i filari in ordine perfetto. Le case basse e semplici che puntellano la valle. La terra dei miei quattro nonni contadini a perdita d’occhio: un mare sconfinato di giallo, verde e azzurro da togliere il fiato che ho stampato in mente come un quadro impressionista e che cerco, instancabile, nei panorami di mezzo mondo.

È apparso sull’aia, fiero, un pavone con la coda di mille sfumature blu, verdi, gialle e ocra. Mentre leggevo vorace durante un viaggio verso la Francia il suono dei campanacci di una mandria al pascolo in lontananza, “nelle coste”, ha raggiunto le mie orecchie in modo distinto.

Ho sentito in bocca il sapore dolce e morbido dei gelsi neri e visto per un momento le manine che si pulivano sui jeans mentre mi sporgevo verso il ramo più basso dell’albero vicino alla porcilaia per mangiarne il più possibile senza farmi scoprire dai miei zii.  Ho camminato in bilico sull’abbeveratoio pieno d’acqua (impresa vietata, pericolosissima) e sporto una mano verso i porcellini (altra cosa da non fare mai, i maiali hanno i denti fortissimi con cui mangiano le ghiande e possono staccarti una mano, il monito supremo di mia nonna).

Questo libro ha preso per mano quella bimba vivace e sorridente di dieci anni accompagnandola lungo i vicoli stretti e ripidi di due paesi lucani mentre, sotto uno spicchio di cielo azzurro cobalto, si muoveva svelta salendo e scendendo gradini ed entrava senza indugio nelle case di zie e comari rispondendo alla domanda:

“A c’ appartien?”

Sono la figlia più grande di Carlo e di Franca, la nipote di zia Rosina e Zì Grard e a settembre faccio la quinta”.

Nel gelo dell’inverno per strada c’è odore di legna e camino e d’estate di paglia, pane appena sfornato e letame.

Giuseppe Catozzella ha scritto un libro che parla di identità, di sogni, di ambizione, di appartenenza e di origini. Di conflitto di classe, di urbanizzazione e in un certo senso anche di futuro. Il futuro delle aree interne, la loro evoluzione. La loro resistenza che oggi, nel 2025, inizia ad affievolirsi. E poi dei grandi eventi della storia e il loro impatto sulle nostre vite, del mondo editoriale e delle sue regole non scritte.

E cos’è la letteratura se non un viaggio dentro noi stessi per rispondere, attraverso le parole nostre o di altri, alle domande universali: da dove veniamo? dove vogliamo andare? chi vogliamo essere? quali luoghi vogliamo abitare? Come vogliamo stare al mondo?

Ho trovato in queste pagine le pietre calde del Sud insieme a certe asprezze dei suoi uomini, la ritrosia a parlare di sentimenti, il pensiero magico e la superstizione. Le donne salde e sicure: poche parole e molti fatti. La fede in Dio e la superstizione, l’al di là e l’al di qua nella stessa pagina come strategie per sperare.

I riti e le preghiere, i rimedi millenari che non sempre si possono tramandare.

In questo libro ci sono i miei zii contadini con gli occhi acquosi e arrossati per il vento e la polvere che prendevano, e parole smozzicate che faticavano a uscire.

I riferimenti agli elementi della natura per leggere il mondo e curarsi: guardare scatenarsi un temporale, scrutare il cielo, sentire il vento per capire cosa accadrà. Conoscere tutti i capi dei loro greggi uno ad uno, chiamarli per nome come il Buon Pastore del Vangelo.

Essere capaci di grande dolcezza e spietatezza nello stesso gesto.

Usare le mani per creare: formaggio, pane, scolpire il legno, annodare, impastare, lavare il bucato, mungere, ricamare, attizzare il fuoco nel camino, scodellare il brodo caldo, rammendare, potare e raccogliere. Far nascere un vitello o scannare un pollo.

Tutto questo vive nelle pagine di Giuseppe Catozzella come dentro di me.

Lui, ragazzo nato a Milano, si mette in relazione con questo mondo arcano ma estremamente reale che ogni estate ritrova insieme a un pezzo di sé: in quel paese lucano osserva i genitori tornare ragazzi, sereni e spensierati e tutto assume un senso. La loro storia di migrazione, i sacrifici, le distanze.

Sullo sfondo il confronto costante con suo cugino Luciano – c’era qualcosa di più grande che ci univa, più forte degli insulti con cui venivo chiamato a Milano, più forte di quelli con cui lui era chiamato li –. Gli amici dell’estate che in inverno sembrano un’idea lontana, le donne della famiglia e gli amori dell’adolescenza: una vita in spazi fisici e mentali a metà tra il Sud e la grande città industriale dove si può cercare riparo emotivo in un parco o camminare in montagna, in silenzio, arrivando a comprendere cos’è che manca da togliere il fiato: la terra. Sempre la terra.

Nelle pagine di questo libro Giuseppe racconta del sogno di scrivere: riuscire finalmente ad unire i suoi due mondi cucendoli con le parole. Sfilano tra le pagine, uno dopo l’altro, Carlo Levi e Rocco Scotellaro, Montale e i contadini di Ignazio Silone passando per Leopardi ed Elsa Morante. Arriva Luciano Bianciardi a dare un senso diverso alla parola “progresso”.

Le parole, mi ripetevo, sono automobili e biciclette, le usiamo per portare la nostra anima negli altri, lasciare che quella degli altri entri dentro di noi, ecco tutto: un pretesto, la scintilla per il fuoco.

Non so bene cosa sia rimasto, oggi, di quel mondo rurale e a suo modo perfetto che ho avuto la fortuna di vivere da bambina e che, come per l’autore, ha definito il mio modo di stare al mondo ma è a quel legame con la terra, seppur indiretto, che oggi sono grata.

Il fiore delle illusioni mi ha riportata anche alla meraviglia di quando ho letto per la prima volta Calvino, Pavese, Shakespeare e poi Cime Tempestose, Le affinità elettiveI Malavoglia. Sono tornata all’estate in cui negli scaffali dell’unica libreria della mia città mi sono imbattuta in Una stanza tutta per sé di Virginia Woolf.

Il mio viaggio verso il futuro è iniziato quel giorno di luglio.

Le parole e la terra, come in questo libro, sono state le mie stelle guida.

La terra mi tiene e la tempesta se viene mi trova pronto. Come nei versi di Rocco Scotellaro.

Giovanna Solimando