Caro Voltolini,

adesso ti confesso una cosa che mi vergogno a dire perfino a me stessa. Quel libro poi non l’ho letto, e nemmeno quell’altro, quelli che avevi consigliato a lezione, ormai quasi vent’anni fa, in Corso Dante. Non l’ho fatto per la superficialità che attraversa chi non è ancora consapevole di cosa e quanto sta imparando e come questo imparare lo cambierà. Per cui adesso regalo a tutti il titolo, e al bando la gelosia, alcuni appunti delle tue lezioni (fino a oggi sottochiave). Il consiglio che mi avevi dato risulta introvabile, Il gioco di Henry di Robert Coover. Non l’ho letto, ne sono pentita, a questo punto non so nemmeno se accadrà. Invece di te ho letto tutto ciò che hai scritto, prima dopo e durante gli incontri a Scuola.

A lezione si parlava del tempo e delle sue strutture narrative, una tua ossessione aggraziata. L’ellissi temporale è una cicatrice che può diventare un’inferenza narrativa. Lezione tua, assolta nei tuoi libri, moltissimo nell’ultimo che ho appena finito di leggere, Il Giardino degli Aranci. Il tempo di Nino Nino è il tempo che non vediamo, che oscilla tra il passato e il futuro, rendendo il presente la necessaria illusione nella narrazione. Nino Nino è un illusionista del tempo e dei sentimenti; l’amore che si nutre del tempo, che è solo esclusivamente tempo (Márquez ne avrebbe da raccontare al riguardo) e dal tempo è perdutamente fatto fuori. In un romanzo la vita (e il suo presente) sono un intralcio per l’immaginazione. A Nino Nino della realtà non gli importa, sin da quando da ragazzino lo chiamavano cateto disonorando la natura dello stesso, perché il cateto va sempre a coppia, Nino Nino invece no. Quel doppio nome è la prova che va in coppia con se stesso. Conoscendo piano piano Nino Nino ho avuto il desiderio di darlo in pasto alla verità letteraria, fargli vivere ciò che la vita per lui non desidera. Poi mi sono ricordata delle tue parole, a lezione, e allora ho capito che il protagonista de Il Giardino degli Aranci è perfetto: trasforma ciò che non gli accade in godimento a mani basse. Anche per il lettore. Prendere un pezzo di tempo e decidere cosa raccontare di questo pezzo se tutto o solo mezz’ora, per capire cosa è informazione e cosa si può tacere. Faccio il tifo per ciò che Nino Nino non racconta, che omette, che non vive e che fa percepire. La scrittura distingue la verità dalla finzione, e la verità, dicevi, in un romanzo si posa nelle frasi che non scriviamo. A lezione si parlava parecchio dell’io narrativo, come scelta e come possibilità. Prima di scrivere bisogna chiedersi cosa racconto e se devo raccontarlo o no; non si tratta dell’importanza di una vita ma dell’importanza di una narrazione: dire una cosa importante. E poi l’illuminazione: Il romanzo dell’io non deve essere per forza in prima persona. Da qui è nato Nino Nino, caro Voltolini? È il tuo ultimo un romanzo dell’io intendendolo non come autobiografia surrogata, ma racconto dell’io in quanto scavo leggero e profondo che sconvolge chi legge, lo obbliga a parlarsi, a risentire aspetti della propria vita nella nudità tipica di un suono unplugged.

Tu hai quella classe che funziona così. Mille parlano, rivendicano, pontificano, si arrampicano sugli strali della fatica narrativa per tremila giorni e poi arrivi tu e in un minuto noi altri taciamo.

Uno si chiede: ma chi sono i maestri? Chi nell’invisibilità della grandezza non copre con la sua ombra la tua luce. La radice del fiore. E tu, lo sei. Se esiste una scrittura luminosa, saggia senza fronzoli e iniezioni razionali, questa è tua, Nino Nino vive e lotta “in questa danza di tutti noi”.

“Come un suono di carne – cioè un canto? – che si sposta negli ultrasuoni fino a svanire ancora, pur essendo dolorosamente acuto, poi solo acuto, proprio perché acuto, oltre la stessa tua sensibilità, oltre la tua soglia di percezione: ma quando cominciava a esserci, quando cresceva, quando urlava, quando invadeva tutto il resto della tua percezione, del tuo mondo, della realtà, come faceva? Dov’eri Nino Nino, con chi?”

Conoscevo la tua capacità di mettere in vita i sensi nelle pagine (succede in Primaverile, in Rincorse solo per dire i primi che mi riappaiono), ma ne Il Giardino degli Aranci nella scrittura percettiva ti sei superato. Le storie di Nino Nino rendono le pagine invulnerabili al tatto; non le ho sentite sfogliandole, c’era solo Nino Nino e le sue pigrizie esistenziali. Se per alcuni Il Giardino degli Aranci è una specie di manuale d’amore, quello vissuto zero forse l’unico amore di cui valga la pena scrivere, io lo considero un manuale di scrittura. Mi auguro che sia letto in questi termini da più persone possibili, soprattutto da chi si ammala e guarisce ogni giorno con le parole che scrive.

È il desiderio che fa scrivere, leggere, toccare, scappare, innamorare, baciare, rinominare il mondo. Nino Nino è desiderio maestoso e irreparabile, come la scrittura.

“Mentre correva gli cresceva dentro una smisurata forza, una gioia di vivere che però aveva incastonata nel suo nucleo l’irridente malinconia di una melodia andina”.

Luciana e le altre esplodono dentro Nino Nino come le storie incompiute esplodono nelle intenzioni narrative, cosa sono se non una masturbazione infinita che evoca un rapporto di coppia nell’attesa che si passi al dunque e quando lo si sfiora si scappa a gambe levate? Cos’è scrivere?

“Il problema sono le cose che non vogliamo vedere. Ci avevi detto a lezione, Bisogna dissodare qualcosa che ricordiamo. La memoria è la storia continuamente rivista e rivedibile, usa un lanternino per sollevare e modificare i nostri ricordi che sono le nostre storie.

E a proposito di ricordi che sono le nostre storie, quando ho visto spuntare il discorso sull’ostrica verso la fine del romanzo, mi sono ricordata di ciò che dicesti, a proposito dell’invenzione narrativa dentro un sentimento reale: L’ostrica patisce nel guscio e per difendersi la contorna di madreperla. La perla di un’ostrica rappresenta fare una cosa bella di un trauma.

Caro Voltolini, il tuo ultimo romanzo è un manuale di scrittura a portata di voce, come sono Nino Nino e Luciana, quando si rivedono, si incontrano, si mettono d’accordo per parlarsi e restano impigliati nelle storie vere, cioè quelle immaginate per decenni, dai tempi della scuola. Le storie mai avvenute sono le storie che possiamo raccontare a portata di voce, anche grazie a Voltolini, all’ostrica, e all’ironia delle sorti che ci fa leggere e ci fa scrivere, mantenendoci in vita, a ridosso di un personalissimo Carso con le mani che pensano.

Alessandra Minervini

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Cara Claudia