Quando in pieno post partum sono venuta a conoscenza non solo dell’esistenza del saggio autobiografico di Rachel Cusk, ma anche che il testo in questione fosse stato ampiamente criticato e, come dice la stessa autrice nell’introduzione alla seconda edizione, giudicato “offensivo” per aver parlato pubblicamente e per la prima volta della maternità senza mezzi termini, ho capito che non dovevo farmi scappare questa lettura.
Non mi sbagliavo. Il lavoro di una vita – Sul diventare madri, edito inizialmente da Mondadori ma riproposto da Einaudi nel 2021 e tradotto da Micol Toffanin, è un racconto intimo, universale e senza tempo. L’autrice dà voce a tutte quelle donne che si sono sentite, per un motivo o per un altro, sopraffatte dalla maternità, narrando con urgenza la sua esperienza personale da prima del parto fino a un anno di vita della sua bambina e facendolo in un modo violento – seppur la sua scrittura appaia elegante come sempre – senza nessun espediente atto a tranquillizzare il lettore (o, anche se dispiace ammetterlo, forse in questo caso è meglio dire la lettrice.)
Nei dodici capitoli che offre alle donne come un regalo prezioso, Cusk ci mette a parte del suo vissuto e delle emozioni contrastanti che l’hanno attraversata durante un periodo della vita che, nonostante ci passino quasi tutte, è ancora avvolto da un’aura di mistero. Ci rivela, in una sorta di flusso di coscienza “ordinato”, dei suoi dubbi iniziali, di come si sia sentita abbandonata a sé stessa e anche da sé stessa, di come la gravidanza sia ancora oggi considerata un tabù e un evento di cui non si parla abbastanza oppure, al contrario, di cui si parla solo bene, alimentando lo stereotipo della vocazione materna e di quanto la maternità porti con sé solo gioie. Infine, della stessa segretezza che aleggia intorno al parto e l’omogeneità di propaganda che governa la gravidanza oggigiorno (lei parla del Regno Unito ma sappiamo bene che questo vale anche per noi) e che rende le donne troppo poco informate sulla verità di ciò che le aspetta.
Ho immaginato che la gravidanza sia un posto dove avviene un addestramento segreto e specializzato, dove informazioni riservate vengono consegnate in buste sigillate, che spiegheranno il dolore e lo renderanno innocuo.
Quello che ci appare chiaro con lo scorrere dei capitoli è che in questo saggio, a differenza di quanto accaduto prima in letteratura, si cerca di mettere al centro della questione “maternità” non il feto/bambino, bensì la madre, con i suoi bisogni, i suoi sentimenti contrastanti, le sue domande senza risposta, il suo improvviso senso di impotenza e quello di colpevolezza messo in atto dalla società. Cusk riferisce di aver avuto problemi con l’allattamento e di aver chiesto aiuto ai professionisti e letto libri sull’argomento che non si esime dal criticare in modo insistente per tutto il racconto. Quando l’allattamento non funziona, il deficit è da imputare alla madre, le (non) spiegazioni confuse che le vengono fornite su sua richiesta sono fatte con toni cupi e giudicanti. Il bambino non va trascurato. Chi pensa alla madre quindi?
L’autrice si sofferma anche sulla conflittualità che si viene a creare tra madre e donna e sul confine che si impone prepotente tra le due parti, così difficile da raggiungere.
Per essere una madre devo ignorare le telefonate, lasciare il lavoro a metà, venir meno agli impegni presi. Per essere me stessa devo lasciar piangere mia figlia, anticipare le sue poppate, abbandonarla per uscire la sera, dimenticarla per pensare ad altro. Riuscire a essere l’una significa fallire nell’essere l’altra.
Per l’autrice il legame con la vita precedente è spezzato. La maternità, nei primi mesi dopo il parto, è da considerarsi un lavoro full-time, “il lavoro di una vita” appunto, che richiede e risucchia tutta l’energia, che non lascia spazio a un’altra esistenza, a un’altra sé, diversa da quella di madre. Che obbliga a mettere in stand-by tutti i desideri e le necessità, che annienta la psiche e l’intelletto fino a un punto di non ritorno e poi, una volta toccato il fondo, la libertà tanto agognata, sia mentale che fisica, viene ributtata in campo così, dall’oggi al domani e torna ad essere, seppure in misura minore rispetto a prima di un figlio, parte integrante della vita della madre.
Le sue palpebre si fanno pesanti. Considero la possibilità che si riaddormenti e dorma per due o tre ore. È già successo. La prospettiva è elettrizzante, perché è quando la bambina dorme che io riprendo i contatti, come se lei fosse un’amante, con la mia vita precedente. È una relazione eccitante, ma spesso convulsa. Saetto per la casa incapace di decidere cosa fare: leggere, lavorare, telefonare agli amici. A volte non riesco a soddisfare questi piaceri, e mi ritrovo a pulire mestamente la casa, o a guardarmi allo specchio cercando di riconoscermi.
Se c’è una cosa che Cusk non fa, è certamente quella di scrivere l’ennesimo manuale di puericultura. Il lavoro di una vita non ha la pretesa di insegnare niente a nessuno, anzi, rimette in questione un ruolo di cui si parla ancora in modo leggero, sleale, sfuggente, quello della madre al giorno d’oggi.
Questo testo vuole semplicemente essere una testimonianza vera di quanto accaduto all’autrice alle prime armi con sua figlia, vuole mostrarci che esiste un’altra prospettiva, che si allontana dagli stereotipi dettati da secoli di patriarcato, che impongono una narrazione idilliaca e senza sfumature della condizione materna.
Veronica Nucci
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