Le parole sono pietre.
Le parole sono pietre. Una citazione che torna a proposito per la riflessione che voglio condividere qui. Riflessione che nasce da un profondo amore per la comunicazione sia scritta che parlata e che si scontra con la constatazione che il peso delle parole sia attualmente sentito dai più come sorpassato e inadeguato, dato per scontato o trascurato perché vissuto come troppo complicato.
Su questo punto è d’accordo con me Andrea Marcolongo, che nel suo best seller La lingua geniale edito da Laterza scrive: “In questi nostri tempi in cui siamo tutti connessi a qualcosa e quasi mai connessi a qualcuno, in cui le parole sono cadute in disuso, rimpiazzate da emoji e da altri moderni pittogrammi, in questo mondo sempre più veloce e in questa realtà così virtuale che ormai viviamo in differita da noi stessi, di fatto – a parole – non ci capiamo più. Si sta perdendo a poco a poco, la capacità di parlare una lingua, qualunque essa sia. Di capire e di farci capire. Di dire cose complesse con parole semplici, vere, oneste”.
Sulla scia di questa riflessione Andrea ha scritto un libro che vuole essere una dichiarazione d’amore personale per il greco antico, una delle radici della nostra cultura occidentale, ma anche un’ode al linguaggio generale, alla sua potenza di espressione in quanto specchio di un popolo: “Il greco antico, qualunque cosa vi abbiano detto (e soprattutto non detto), è innanzitutto una lingua. Ogni lingua, con ogni sua parola, serve a dipingere un mondo”. L’amore che scrive Andrea è anche il mio. Perché il linguaggio è nostro specchio sì, e in continua evoluzione anche.
La comunicazione giovanile
Se la Marcolongo vuole dimostrare la potenza del linguaggio tornando alle radici, soffermandosi su una lingua che viene definita morta ma che lei dimostra essere tuttora attuale, Rossano Astremo mette in luce quanto la parola sia mobile portando la sua attenzione sul linguaggio che usano i giovani, i suoi studenti in particolare. “Quando si parla di linguaggio giovanile si entra in contatto con un mondo in continuo divenire” mi spiega Rossano. “Questa continua mutazione è dettata da fattori spaziali, temporali e sociali. Come ho già detto in altra sede, il linguaggio che io ero solito utilizzare con i miei compagni di Liceo negli anni Novanta nella provincia di Taranto non ha nulla da spartire con il parlato dei miei studenti. Non solo, il modo di esprimersi dei miei studenti, liceali romani, è assai diverso dal punto di visto lessicale e fraseologico, rispetto al linguaggio utilizzato dai liceali di Milano, Bologna o Napoli. Infine, anche all’interno della stessa Roma, sono presenti differenze linguistiche, seppur non marcate – poiché comune è lo strato dialettale di riferimento – tra studenti di un Liceo del centro, come quello in cui insegno, e studenti di un Istituto d’Arte di un quartiere periferico. I giovani assorbono tutto quello che è attorno a loro e questo loro essere malleabili ha sempre come obiettivo quello di creare una nuova pelle verbale che sfugga al processo di decodificazione degli adulti. I giovani parlano una lingua comprensibile solo ai giovani e gli elementi che entrano in gioco nella formulazione del loro linguaggio fanno tutti riferimento a strati non appartenenti al mondo degli adulti”.
E prosegue riflettendo sui social media: “L’uso dei social media gioca un peso imponente nell’evoluzione del linguaggio giovanile. Di certo ha rappresentato una profonda innovazione per ciò che concerne il canale d’espressione. Fino all’avvento delle chat e dei social media, il linguaggio giovanile era soprattutto parlato. Le uniche attestazioni di linguaggio giovanile scritto negli anni Ottanta e Novanta erano rappresentati dalle scritte sui muri. Negli anni Zero i testi scritti in rete giocano un ruolo fondamentale nei cambiamenti del linguaggio giovanile non solo in quanto codice innovante, ma anche nella determinazione di nuovi termini (pensate solo all’utilizzo di postare, bloggare, instagrammare, snapchattare, screenshottare)”.
Il linguaggio, un’entità liquida
Linguaggio come entità liquida, a volte esoterica, ma sicuramente sempre visione orale di ciò che ci circonda e sul modo umano di percepirlo. Mi sembra interessante a questo proposito condividere la riflessione che il film di fantascienza Arrival propone. Uscito nel 2016 si basa sul racconto Storia della tua vita, incluso nell’antologia di racconti Storie della tua vita (Stories of Your Life) di Ted Chiang.
Giulia Iannuzzi, nel suo articolo Precoci incontri con il futuro, scrive: “Si apprezza lo sforzo di portare sul grande schermo tematiche poco gettonate dalla fantascienza meno scientificamente scrupolosa – si pensi al bel motivo linguistico, quante altre volte obliterato con traduttori universali, forme di telepatia, lingue franche pangalattiche in favore di trame avventurose, e qui invece sviluppato con attenzione al problema della decifrazione letterale di un testo (orale, scritto) la cui forma è del tutto aliena, ma anche al problema più spiccatamente traduttivo e semiotico della referenza (saranno le due specie che entrano in contatto dotate di un minimo comun background gnoseologico che consenta il trasferimento di significati semantici?). […] Sarà il linguaggio degli alieni eptapodi a consegnare all’uomo (anzi: alla donna!) la capacità di concepire e dunque percepire gli eventi in maniera non sequenziale. Se è vero che il linguaggio dà forma al pensiero, e che il nostro paradigma di realtà è matrice della nostra capacità cognitiva (ipotesi di Sapir-Whorf), ecco che il sistema linguistico degli eptapodi consegna agli umani la capacità di ricordare il futuro”.
Anche Nunzio La Fauci, nel suo articolo Lo scrittore è un calamaro, riflette sulla tematica del linguaggio che il film affronta. “Sulle prime, la protagonista, che fa di nome Louise Banks, tenta come linguista di intendere la “ratio” dell’eptapodo. […] Quando in conclusione il personaggio cui dà le sue sembianze la brava Amy Adams riesce nell’impresa, vi riesce semplicemente come intima ‘parlante’. Si immerge infatti nell’eptapodo e ne viene profondamente intrisa, fino a farne un elemento della sua “Erlebnis”. […] La prospettiva è ispirata da un’acquisizione cruciale per lo sviluppo del pensiero moderno […] La lingua dà forma a ciò che gli esseri umani pensano e percepiscono, in quanto parlanti e ancora prima di acquisire, in proposito, qualsiasi competenza dottrinale, la linguistica inclusa. Nelle sue diverse e variabili declinazioni, essa dà quindi forma al modo con cui gli esseri umani istituiscono il mondo intorno a se medesimi e si concepiscono in esso. […] E la storia si conclude appunto con l’accesso di Louise Banks a una nuova consapevolezza: l’avere introiettato l’eptapodo le consente di acquisire un punto di vista diverso da quello di una linearità temporale che procede dal passato verso il presente e dal presente verso il futuro. Cos’è d’altra parte una lingua se non un punto di vista? E cos’è un punto di vista se non la metà correlativa di ciò che molti, credendola intera, chiamano realtà con un’ingenuità che sarebbe toccante se non fosse il più delle volte violenta e prevaricatrice?”
Per finire
L’interpretazione che offre il racconto e poi anche il film attesta al linguaggio un ruolo fondamentale quanto innegabile, che condivido e che desidero ricordare perché, come afferma ancora Rossano Astremo, “Si parla sempre più spesso di analfabetismo funzionale, intendendo con esso l’incapacità di un individuo di usare in modo efficiente le abilità di lettura, scrittura e calcolo nelle situazioni della vita quotidiana. Questo ha delle conseguenze sia sul linguaggio parlato che scritto. Stiamo assistendo ad un imbarbarimento complessivo del linguaggio e ad un abbassamento del registro linguistico anche in settori in cui un tempo il parlar bene era sinonimo di rispettabilità sociale. Pensate al modo in cui parlano i nostri politici in televisione o nel modo in cui si esprimono sui loro social. Loro sono lo specchio fedele delle storture del nostro linguaggio. Le parole definiscono chi le usa. Noi siamo le parole che usiamo. E non ce la passiamo un granché bene”.
20 Gennaio 2018 at 17:30
Avendo letto il libro e visto il film (proprio dopo averne discusso con Matteo Galiazzo su queste stesse pagine virtuali di exlibris-sezione Strabook!) il mio consiglio agli interessati è di concentrarsi sul libro, dove il discorso sul linguaggio, attraverso la storia e il “come” viene raccontata la storia, è molto più pregnante e cogente … nel film si perde sia il discorso sulla circolarità che la vastità di alcune riflessioni linguistiche molto interessanti e diventa tutto, almeno a mio parere, un semplice film americano di fantascienza …il racconto è invece in tutto e per tutto intrigante e stimolante, nonché assai profondo in alcuni passaggi, anche complessi in prima lettura. Ne sono rimasto del tutto incantato.