Numero 19 | Aprile 1999

«Da dove vengono le storie? Di cosa si deve scrivere? Dove si trova il materiale narrativo? Come si comincia? E: perché agli scrittori vengono fatte così spesso queste domande?»

Se Hanif Kureishi, prendendo spunto dal suo Riflessioni sulla scrittura (Bompiani) ponesse queste domande a Giulio Mozzi, vi troverebbe un interlocutore ideale. Il 38enne scrittore padovano infatti, è assai abile nell’utilizzare il materiale umano a propria disposizione, trasformandolo in materiale narrativo.

Le storie di Mozzi abitano la realtà, ma è praticamente impossibile individuare quel seme di luce (o d’oblìo?) che le spinge a migrare nel cosiddetto popolo del libro cui l’autore ha sempre dichiarato di appartenere.

La scrittura se ne impossessa, e da quel momento ogni desiderio-sentimento-ricordo viene ‘agito’ nel testo come accade per un qualsiasi altro strumento che funziona. Deve funzionare. È la regola della comunità.

Tu leggi Il male naturale (Mondadori, nell’edizione originale del 1998, ndr) e vedi la conversione del materiale umano in materiale narrativo è tale, che ti domandi… ma non è proprio una domanda, è che cominci a voler capire, e non è semplice curiosità, insomma, sai che non c’è modo di confondere quel Giulio lì in carne e ossa, con uno qualsiasi dei suoi autori impliciti o dei suoi alter ego, ti chiedi solo… se tale conversione lo lasci poi a contatto con la vita, per attingere nuove esperienze ed emozioni da tramutare in. storie (e la comunità è salva), o se lo costringa invece a una segreta distanza, una sorta di sguardo cieco indispensabile per non lasciarsene sopraffare (e chi resta, poi? Chi racconta?). Allora pensi: forse succedono entrambe le cose.

Dev’esserci una passione che lo agita e nello stesso tempo lo immobilizza, e questo spiega anche l’ambiguità che pesa dentro le pagine, dove un certo Giulio spesso nominato ma innominabile, si dà da fare a esprimersi, poi ossessivamente tiene a precisare: ma attenzione! Non sono io, «quello». E alla fine decidi… sì, ti succede che non vuoi più sapere «da dove vengono», ‘ste storie. Vuoi leggerle e basta: con stupore, riconoscenza, perché qualcuno almeno le ha raccontate e loro esistono, continuano a crescere un’idea dopo l’altra, una frase dopo l’altra, si dilatano fin quasi a scoppiarti sotto gli occhi, a frantumare il tempo lungo o breve impiegato per scriverle. Anche di questo, Mozzi è maestro. Del Tempo. Ti fa prendere per mano dal gentile Chastel – primo personaggio della prima storia, nel Male – e resti con lui finché il suo Richesse non è morto. E ti è così fatale la curiosità di voler conoscere fino in fondo i pensieri delle giovani Djuna e Ruota, da precipitarti ignara verso quelli della mostruosa Dalia. Ma non è abbastanza. Ti fa passare attraverso un certo Giulio che desidera essere «sterminatamente amato» (non quel Giulio lì in carne e ossa, d’accordo, l’ho detto prima), ma a quel punto già sospetti di non essere più tanto invulnerabile, hai una specie di vertigine. E c’è dell’altro, ovviamente.

Sogni. Che esistono «senza la persona sognante». E Mario e Bianca. Sposati. Soli insieme. Poi la voragine di Super nivem, dove al colmo dell’inquietudine, ne fai uno tuo di pensiero, finalmente: storie! Roba da cui tirarsi fuori, volendo… No. È chiaro che non vuoi.

Sei allo stremo delle forze, ma non rinunci lo stesso a leggere quello che c’è. Che rimane. E a una decina di pagine dalla fine apprendi che tutte le storie qui raccontate, tutte le cose altrove raccontate, sono varianti di una sola storia o di una sola cosa che si aveva da dire.

E pure se sei troppo fuori di te per sapere d’aver sempre saputo quale, pure se hai passato la notte intera con questo dannato libro in mano, ti ci metti, a pensare, ti chiedi di nuovo… insomma, una domanda così non ti era mai venuta prima, te la rigiri come se avessi tutto il tempo, e non ce l’hai: dove sta la mia comunità? Esiste, da qualche parte, o dovrò inventarmene una qui, adesso, per non morire? Aspetta. Il finale.

Quel bravo timido ragazzo ha una provvidenziale crisi di coscienza. Ti avverte. Declina ogni responsabilità circa gli effetti che il suo male naturale potrebbe provocare su altri ignari lettori, poiché per quanto gli riguarda, «questo è un male attivo, produttivo, che agisce e vivifica e lo fa alzare la mattina e lo manda in giro per il mondo».

A lui. Forse gli è venuto, il sospetto, che a qualcuno invece potesse tenerlo seduto a scrivere una cosa così (né recensione né commento sfogato – un nome non ce l’ha, tanto è strana) che salta subito agli occhi per il modo in cui vien giù: con tutto il garbo e il dolore possibili…

Ma ormai è fatta. Hanif Kureishi direbbe: «Anche se molte delle nostre idee ci sembrano stravaganti anche mentre le concepiamo, dobbiamo insegnare a noi stessi a non lasciar perdere con troppa facilità ciò che suona strano».

E son così. C’ho sempre una gran voglia di imparare, io.

Mirose Sambati

In libreria

Giulio Mozzi
Il male naturale
Laurana Editore, 2011
Collana: Rimmel narrativa italiana
216 p., brossura
€ 15,50

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