Giuseppe Berto, scrittore del secondo Novecento italiano tanto più irregolare e, in maniera tormentata, controcorrente, quanto più genuino nella sua sofferta vocazione allo scrivere seppe, come pochi altri, raccontare i chiasmi di sé con la grazia di un pittore fiammingo attento agli interni dell’animo e la potenza caravaggesca delle sue parole rivelatrici.

Lontano dai salotti letterari, per i quali provò sempre una spiccata allergia, scelse, lasciatisi alle spalle tutto e tutti, un luogo solitario a picco sulle rocce, Capo Vaticano in Calabria, per farsi agrimensore della propria psiche. Là, nel suo piccolo buen retiro, cartella dopo cartella, tentato ora di abbandonare le parole ora di spingerle sempre più a fondo, scrisse Il male oscuro, un’opera che può essere letta come la contabilità di una intera vita ma soprattutto come la storiografia della sua nevrosi, che quella vita puntellò nelle sue diverse fasi, un male basato sulla paura che, come quello di Gadda, ti porti dentro e ti soffoca e si condensa nella fatica di essere sé stessi. Peraltro come unico spettatore del proprio ‘io’.

Protagonista di queste pagine, con chiari risvolti autobiografici, è un uomo del confine, un modesto sceneggiatore cinematografico e un aspirante scrittore, che combatte una battaglia su due fronti sempre osservati a distanza. Da un lato con il proprio padre e i suoi valori altri, un uomo probo, un maresciallo dei carabinieri in pensione riciclatosi in cappellaio nella pianura veneta, mai assaporato pienamente come figlio e anzi sempre tenuto a distanza per il loro contrasto nel fare la tara alla vita. Dall’altro con un grumo di tensione che il corpo restituisce, ma non sfoga, con diverse avarie fisiche, alla cui origine si staglia la figura del padre, una nevrosi che rischia di tramutarsi in psicosi per la cui cura egli passa di specialista in specialista nella coriacea convinzione di trovare medici che siano soprattutto taumaturgi o, sotto certi aspetti, esorcisti, fino all’approdo alla psicoanalisi.

La famiglia e la malattia sono per la voce narrante due mondi pensanti con le loro regole: sanno farti sentire l’ingrato e il fuori posto ma, alla fine, ti tengono legato nella morsa dei loro focolari e chi, come il protagonista emigra da una all’altra, drammatizza e incrina la relazione fiduciosa che l’uomo dovrebbe avere con le cose che lo circondano senza dovere vedere, per esempio, nel rumore lontano di un treno, che resta pure sempre: il rumore lontano di un treno, il passaggio imminente della fine del mondo. La nevrosi è una malattia basata sulla paura: paura di tutto, della morte, della pazzia, della gente, della solitudine, del movimento, del futuro e, per uno scrittore, di scrivere.

Queste pagine, a lungo dimenticate, sono una risposta a questo timore, e hanno il sapore della sfida: sono una chiacchierata ad alta voce, senza reticenze, con le ombre del proprio carattere: Berto, intarsiando i ricordi dell’infanzia, vissuta con una quantità di sconforto che un bambino non può sopportare restando bambino, con quelli del presente, di figlio, di marito, di padre, demiurgo del proprio mondo e aspirante, ad inciampo, alla grandezza si scruta a fondo con l’urgenza di raccontare tutto, in modo circostanziato e rigoglioso, affidandosi ad una scrittura che, se lasciata libera di dire e di dirsi, diventa rabdomantica.

Il narrato si presenta come un lungo flusso di coscienza e di conoscenza, con un uso parco della punteggiatura, con periodi interminabili che sfrecciano per pagine e pagine, con pensieri che si collegano l’un l’altro in apparente convulsione ma con un costante desiderio di ordine, di logica e di chiarezza perché Berto non scrive ma scrive pensando. Il suo è un procedimento brioso o meglio andante con moto come in un concerto di Vivaldi dietro il quale vibra un intero mondo morale, un modo di raccontarsi a briglia sciolta e a proprio modo, lontano dai gusti letterari del tempo. Siamo così partecipi di tutti i suoi stati d’animo spesso in conflitto tra di loro, di chi suo malgrado è stato figlio di un certo padre e il pensiero di averlo perso, di essere innamorato e di vedere nel rapporto di coppia una zavorra, di essere malato dei mali più disparati, specie di matte gastroenteriche, e di non avere nulla. Leggiamo le sue parole immersi nella profondità del racconto senza sconti ma con un sorriso quando, tra quelle stesse pagine, l’ironia e l’autoironia sfiorano il narrato.

Il suo male oscuro, che rimane tale perché oscuro, in fondo, è sempre l’uomo, lo porta ad avere la «mente bastonata» e i pensieri che quasi tutti gli si sciolgono prima ancora di formarsi bene. In lui, confessa, ci sono fibre nervose che legano malignamente le lombari al colon e ai muscoli della respirazione, nella costrizione a vivere secondo le modalità scelte dal suo male bifronte. E, se anche i sintomi hanno momenti di requie, vi è sempre la paura di ricadere, di tornare su quel ciglio, instabile e instancabile, a picco sugli abissi.

Accanto al racconto della malattia dal padre e della nevrosi si avverte in Berto la persistenza di una pretesa di chiarificazione, la voglia di vederci chiaro che, sotto certi aspetti, è una desiderio di guarigione o, perlomeno, di non totale abbandono alla malattia, una focale corta a cui interessa risalire alla causa dei sintomi. In bilico tra la percezione di disgrazie, con delle assonanze iettatorie, c’è anche un che di umoristico nelle sue disavventure sia per come accadono, fulminee, sia per come vengono rievocate, con un certo brio, nella convinzione che «uno prova sempre un po’ di soddisfazione nel trovarsi al centro di avventure per quanto poco belle». Il personaggio che più sovrintende alle sue disgrazie è comunque il padre ma non nella forma spiritistica con la quale egli pensa lo abbia tormentato anche da morto ma in quella scientifica di trasferimento delle sue peggiori qualità nel Super-Io del protagonista che si fa ricettacolo di divieti e dissonanze. E l’ormeggiarsi di Berto nella psicoanalisi, cui si affida, conferma queste nuove percezioni.

L’auspicio è che Il male oscuro di Giuseppe Berto, un atleta della scrittura, ora riproposto in una nuova edizione Neri Pozza, corredata dalle riflessioni di Carlo Emilio Gadda e da Emanuele Trevi, diventi subito un’esperienza di lettura, di immersione in qualcosa che solo in apparenza ci sembra estraneo perché, come è stato detto, l’importanza di questo libro non è la verità che dice ma le verità di cui è intriso, che ci permette, ieri come oggi, di confrontarci con le nostre paure e vigliaccherie, con i nostri imbarazzi e pregiudizi, con i nostri rapporti con i padri, sempre presi dalla constatazione degli effetti senza mai porsi il problema delle cause che sono lì, avvolte dalla nebbia, su cui basta allungare la mano…

Claudio Musso

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