“A mio padre e a lei, mia madre”

Questa la dedica con cui Roberto Camurri apre Il nome della madre, NN Editore (2020), suo secondo e fortunato romanzo in cui la famiglia è indiscutibilmente al centro.

Il preludio della storia, lungo poco più di due pagine scritte in una prosa che pare spezzata dal soffio del ricordo, racconta il momento esatto della nascita di una famiglia: Ettore, il padre, attende con trepidazione la nascita del suo primo figlio, Pietro. Poi c’è lei, la madre, esausta dopo i dolori del parto.

Da lì a poco sarà proprio lei ad abbandonare questo nucleo in fieri trascinando l’intera danza narrativa verso un radicale cambio di ritmo: il passo da tre diventa a due e il genere dei personaggi da misto volge verso un mondo dalle nette tinte maschili. Il dramma che ne scaturisce è duplice: da una parte quello dell’uomo e del marito che resta solo, privo del sostegno della donna amata e dall’altra, quello del figlio costretto a crescere privo della presenza materna. A tal proposito, in una intervista rilasciata a Rai Cultura, Camurri esplicita con chiarezza il suo intento nel voler lasciare sulla scena due figure maschili in balia di loro stesse, con i loro silenzi e il loro dolore, al fine di indagare quanto lo scontro sia inevitabile quando manca una terza figura a fungere da filtro.

E allora è proprio da qui che prende il via il cuore del romanzo, da questo centro di abbandono fatto di silenzi, che fa a pugni con una giovane vita, quella di Pietro, che cresce respirando la quotidiana frustrazione, la disperazione e il senso di colpa di Ettore incapace di accettare, e soprattutto di comprendere, il definitivo allontanamento della moglie. Pagina dopo pagina il lettore vive dramma di Pietro ed Ettore in lotta con un tempo che, nel suo incedere, sembra incapace di lasciare indietro le ferite ma semmai le riapre, sempre nuove e più sanguinolente, ad ogni stadio della vita. Leggere queste pagine è stato come inerpicarsi, alla ricerca della luce solare, su rami fragili che continuano a spezzarsi sotto il peso fantasma di una assenza/presenza talmente imponente da non lasciare tregua.

Qualcosa di ineluttabile pervade ogni fase della crescita di Pietro, da quando è appena un neonato:

“Quando si volta lei non c’è, c’è quello che resta della sua metà del letto, le lenzuola a coprire il cuscino dove lei dormiva, c’è Pietro che ancora piange”

All’età scolare:

“Hai le labbra tutte screpolate, gli aveva detto la maestra a scuola durante l’intervallo. Sono cose che vede una mamma, gli aveva detto”

Fino all’età adulta, in cui la tentazione di essere lui ad abbandonare, vedremo, lo sfiorerà più volte:

“Pensa alla possibilità di non tornare mai più a casa, al coraggio che ci vuole per abbandonare tutto”.

Le giornate di questi due uomini, travolte dalla mancanza, dal vuoto e dai non detti, procedono con lentezza, quasi a tentoni, tra le cose della vita, e tra loro si creerà una distanza a tratti irrecuperabile finché Ester, silenziosa ma presente nonna materna di Pietro, e le coincidenze stesse della vita non risolleveranno la polvere a tal punto da essere definitivamente ripulita.

A fare da sfondo a questa vicenda di dolore e rinascita al maschile c’è Fabbrico, paese natale dell’autore, le cui peculiarità sono talmente ben descritte da ricoprire talvolta il ruolo di un terzo protagonista maschile. Fabbrico, tra le sue nebbie e le atmosfere rarefatte della Pianura Padana, soggettivizza l’abbandono e la mancanza a tal punto da indurre i protagonisti a volersene andare per poi tornare, un po’ come facciamo tutti con quei conti aperti con noi stessi che “non tornano mai” perché, in realtà, non li abbiamo mai davvero affrontati:

“Fabbrico che, nel freddo si allunga verso il centro, la fabbrica, le case, le luci accese, non vede nessuno camminare, nessuna macchina”.

Un deserto, in ogni senso, da affrontare o da cui scappare.

Fuggire via e mettere distanza tra sé e i ricordi è una soluzione per la sopravvivenza o serve altro per riuscire a guardare i propri fantasmi a viso aperto? Questa la domanda sottesa che rincorre personaggi e lettori in ogni immagine di questo romanzo scritto con una penna asciutta e poco propensa a virtuosismi stilistici ma capace di scandagliare gli anfratti più viscerali dell’interiorità umana.

Consiglio la lettura di questo romanzo a chi è stato abbandonato o si sente tale perché la compagnia di Pietro e di Ettore è un balsamo che lenisce e accompagna almeno quanto è in grado di schiaffeggiare e ridestare da quel torpore vittimista in cui ogni “abbandonato/a” rischia di inciampare.

Guarda in faccia i tuoi fantasmi! Sembra dirci Roberto Camurri.

Ombretta Brondino