Ex-Libris-0-8-12

Anno 0 | Numero 8 | Anno 1997

Il padre di Osvaldo Soriano non era triste, anche se era molto solitario e molto alla fine. Il padre di Osvaldo Soriano, più che altro, cadeva dalla moto. Guidava a zig zag: i personaggi di Soriano procedono così. Ondeggiano, cascano agitando la mano per salutare. Il padre di Osvaldo Soriano, nel racconto Petrolio, forse è il suo personaggio più personaggio di tutti. Ha nuvole e polvere davanti, cespugli dove rotolare e infatti ci rotola. Poi si rialza, ma è come una caduta che continua.

Non ci sono altro che giganteschi fallimenti, scrive Soriano. Le moto si rovesciano col motore acceso e la ruota continua a girare: si fermasse, si soffrirebbe di meno. Ma non si sarebbe solitari, non si sarebbe alla fine, Il padre di Osvaldo Soriano guardava i pozzi di petrolio costruiti anche da lui, tanto tempo fa. Poi si fermava a disegnare inutili oleodotti con inutili giardini “e a strade su cui nessun motociclista potrebbe cadere”. Gente così, alla deriva. Senza viaggi, solo naufragi. E mai la soddisfazione di affogare davvero. Si galleggia invece, si beve molto, e via così.

Il padre di Osvaldo Soriano è il ricordo che ogni figlio vorrebbe avere. È bello amare il fallimento dì un padre, la sua illusione feroce. “Siamo molti e uno solo, fin dove arriva la mia memoria”.

All’inizio c’è una strada nel deserto e due moto nell’aria tremula e bollente. Davanti il padre sulla Bosch fiammante, dietro il figlio sulla Tehuelche dell’industria nazionale. Il padre non sa guidare, il figlio lo immagina cadere. Il padre saluta con la bottiglia in mano e infatti cade, ma “allegramente in un dirupo di cardi e fiori striscianti”. Si strappa l’unico vestito che possiede, un sette nei pantaloni, però quello che si ferisce è l’orgoglio.

Non importa un padre che cade, importa un padre così. Non ci sono che giganteschi fallimenti. E allora? “Mio padre ha in tasca qualche banconota di piccolo taglio. Quanto basta per la locanda e la nafta del ritorno. Non ha mai guadagnato neppure un peso senza lavorare. Non so se sia rassegnato alla sua vita. Comunque, non può rifarla diversamente. Ha vissuto davanti alla porta, guardando arrivare una palla che non scende mai. Ha provato a smarcarsi, a scattare, a saltare di testa, ma non ha mai imparato a usare i gomiti. Ha camminato sempre sui gradini di una scala stesa a terra. Tarzan sul monopattino, Batman che aspetta l’autobus, San Martin che sogna le ragazze con il vitino da vespa disegnate da Divito. Eppure, quando fuma in silenzio, sembra essere sul punto dì trovare la soluzione”.

Non serve a nessuno un padre che para tutti i palloni. Non c’è niente da ricordare, in un padre che vede scendere verso di lui tutti i palloni. “Avevo diciannove anni e mi sentivo solo in un campo vuoto. Sono ancora qui, fermo con mio padre in mezzo alla scala”. Sono state molte le cadute, scrive Soriano, “e non sempre l’ho ritirato su”. Dice che la racconterà al suo bambino che adesso gioca con la schiuma del mare, quella sciocca storia di sconfitte e di cadute. Eppure nulla va perduto. Deve essere bello avere un padre come il padre di Osvaldo Soriano. Deve essere molto bello amare le sue cadute, i suoi pantaloni strappati, la strada a onde, il serbatoio della moto che brilla nel sole. Siamo molti e uno solo, fin dove arriva la memoria.

Maurizio Crosetti