Le storie sono per gli esseri umani ciò che è l’acqua per i pesci, cioè vi sono immersi ma è un fatto impalpabile. Mentre il nostro corpo rimane costantemente ancorato a un punto specifico dello spazio-tempo, la nostra mente è sempre libera di vagare in mondi immaginari.
E lo fa in continuazione.
In queste poche righe è possibile scorgere l’orizzonte di senso del testo L’istinto di narrare di Jonathan Gottschall, comprendendo la prospettiva dalla quale esso muove le sue premesse, le sue analisi e le sue conclusioni. Si parte da qui: le storie sono ciò di cui siamo fatti; sono ciò di cui buona parte della realtà umana è fatta; sono il nostro principale impegno ordinario e la nostra attività extra-ordinaria prediletta. Le storie sono ciò che caratterizza la nostra specie e quello di cui abbiamo costante bisogno per vivere. Non si tratta di un diversivo o, peggio, di un’aberrazione narcisistica, come pure altri autori hanno suggerito, si tratta –appunto- di un istinto che risponde a logiche evolutive ben precise.
Già Yuval Noah Harari, nel suo Da animali a dei: una breve storia dell’umanità, aveva sottolineato l’importanza -per storia evolutiva dei primati umani- di creare storie e di credere collettivamente in esse; sebbene Harari si concentri assai più sulla funzione sociale del pettegolezzo, sull’ossessione degli umani per le storie degli altri esseri umani e, in generale, sulla fastidiosa abitudine di metterci al centro di ogni discorso.
Gottschall non intende tanto mettere a fuoco le conseguenze, per la nostra specie e per l’intero ecosistema, dell’irrefrenabile istinto umano alla narrazione. Propizie o nefaste che siano, le conseguenze future, le speculazioni sui sottoprodotti dell’istinto narrativo non sono al centro dei suoi interessi. Piuttosto, preferisce indagare i motivi e le misure del nostro essere animali che creano storie. In questo senso, il testo di Harari, pur fortemente storicizzato e fondato su non poche evidenze, è più orientato a focalizzare le storture prodotte da una simile attitudine, fino a prefigurare gli scenari che ci attendono in mancanza dei giusti correttivi. Il testo di Gottschall è più fenomenologico, più interessato a come questo istinto funzioni, al perché compaia e si rafforzi. Il testo intende individuare la possibile ragione evolutiva di tale istinto, comprendendo quali siano le esigenze primigenie cui l’incessante e creazione di storie risponde.
Tutte e tutti siamo creatori e fruitori di storie. I nostri Io sono essenzialmente agglomerati di trame narrative. Siamo, come diceva Lacan, dei parlesseri, anche se in Gottschall è assai meno presente la negazione di libero arbitrio che talvolta consegue alle considerazioni lacaniane. Ciò che Gottschall intende, in quanto studioso delle relazioni tra letteratura ed evoluzione, non è mostrare come gli umani siano, loro malgrado, costretti in e manovrati da una struttura linguistica che li precede, li sovra-determina e ne recede la libertà, quanto mostrare i motivi e i sensi di questa immane e incessante produzione di storie, di quest’instancabile fantasticare di vecchi e nuovi mondi.
Tendiamo a non accorgerci di quanto l’istinto di narrare sia reale e totalizzante perché, di base, adottiamo un’interpretazione riduzionistica del concetto di “storia”. Supponiamo erroneamente che le storie siano quelle raccontate nei libri, nel film, nelle canzoni, nelle poesie; ovvero che esse siano, per lo più, “racconti di fantasia” o “punti di vista sulla realtà”, per altro nettamente distinguibili dalla Storia che, invece, sarebbe la somma degli eventi, delle invenzioni e delle scoperte –collettive e individuali- attinenti all’oggettiva verità dei fatti.
Tanto per cominciare, dimentichiamo i sogni notturni, che –secondo le ultime ricerche- non sarebbero neanche limitati alla sola fase REM e animerebbero l’intero ciclo del sonno; ancor più, dimentichiamo i sogni diurni, vale a dire quelle fantasticherie a occhi aperti, che si stima arrivino a comporre circa un terzo delle nostre giornate. Per non parlare, poi, di quanto sia compromessa ed erronea la convinzione che si possa tracciare una sicura linea di separazione tra le storie inventate e le storie reali, dimenticando che è molto facile che alcuni universi narrativi finiscano, col tempo, perdiventare veri, a patto che un numero sufficiente di persone cominci a credere che lo siano. In buona sostanza: sottovalutiamo costantemente il potere creativo delle storie, vale a dire la capacità che esse hanno di plasmare e orientare la realtà di fatto, sia individuale che collettiva. Eppure le società umane, oggi più che mai, sono evidentemente immerse in un mondo scolpito da credenze diffuse e condivise, nonché dall’adesione generale a storie palesemente immaginarie o credute vere, seppur in mancanza delle necessarie evidenze scientifiche.
Ecco una breve digressione esemplificativa che attinge al mio bagaglio di conoscenze (vale a dire a tutte le storie che mi in-formano) più che ai soli contenuti del presente libro. Pensiamo alla storia-mito della sopravvivenza del più forte per selezione naturale. Tale mito viene, principalmente, dall’errata traduzione del termine “fittest” –usato da Darwin per indicare l’individuo con maggiori probabilità di sopravvivenza in un dato contesto, sotto determinate pressioni evolutive- con il “più forte” anziché col “più idoneo”, interpretazione decisamente più corretta. Sebbene non esista alcuna prova finale del fatto che tale lotta si esprima prioritariamente nella competizione invece che nella collaborazione -come invece sarebbe caratteristico delle specie eusociali come quella umana- nel mors tua vita mea (win-lose),piuttosto che nella simbiosi (win-win), la gran parte degli esseri umani è a tutt’oggi convinta che questo sia un principio fondamentale e indiscutibile della biologia. Ciò è tanto vero che siamo arrivati a considerarlo la vera e ineludibile ragione della violenza insita nella nostra specie, cui sarebbe –perciò- biologicamente impedita la rinuncia alla guerra come “strumento di progresso”. Homo homini lupus, questo sarebbe il motto iscritto nel cuore d’ogni umano, e la sua azione risulterebbe evidente e preponderante in diversi ambiti dell’esistenza. Tale radicato pregiudizio ci rende insensibili, se non del tutto ciechi, alle molte storie contrarie, capaci di mettere in discussione l’assoluta verità scientifica di tale assunto, consentendoci di cominciare a credere nelle narrazioni che raccontano una diversa storia evolutiva.
Quella che chiamiamo storia, insomma, è assai più intrisa di mito di quanto siamo disposti ad ammettere. Crediamo che la narrazione leggendaria sia esclusiva dei testi religiosi e non caratterizzi, invece, tutti i livelli della produzione di storie. Eppure, persino le nostre biografie assumono, nel racconto che facciamo di noi stessi, toni leggendari; spesso attingendo a memorie inaffidabili, ricostruite secondo nuove necessità e convinzioni. Le nostre esperienze, così come le fasi della nostra esistenza –anche quando sono legate a episodi di assoluta normalità- assumono sfumature eroiche, parossistiche, epiche… E questo non accade solo oggi. Non si tratta di un sottoprodotto dell’era vanesia ed egomaniaca che abitiamo. L’aspetto mitico è connaturato alle storie e ciò dipende dalla funzione evolutiva che, prioritariamente, esse sono chiamate a svolgere: fornire modelli –archetipi- per rileggere il passato in modo utile, consistente, e anticipare scenari futuri.
Mi spiego: noi produciamo storie e ci nutriamo di storie per dare risposte ai nostri interrogativi, siano essi di natura ontologica -del tipo: Che cos’è l’esistenza? Che cos’è morire?- o di natura fenomenologica –Come reagirei di fronte a una minaccia concreta per la mia vita? Cosa farei in caso di aggressione o di calamità naturale? Quali che siano gli interrogativi, creiamo storie e ci nutriamo di esse per immaginare e immagazzinare infinite risposte, ovvero per proiettare eventi possibili, anticipando le mosse da mettere in campo nel caso in cui. Le storie hanno, in sostanza, una primaria e fondamentale funzione educativa. Sono il campo di addestramento di base della psiche umana che, nei millenni, è stata forgiata esattamente a questo scopo: immaginare scenari futuri, realistici e irrealistici, e progettare azioni efficaci e coerenti. Le storie sono il pane e l’acqua delle nostre menti, sono il nutrimento fondamentale della nostra vita psichica e, come ogni genere di cibo, possono essere salubri o tossiche. Le trame narrative in cui crediamo possono condurci ad azioni salutari per noi stessi e per gli altri, ad azioni utili soltanto a fini egoistici o ad azioni completamente auto-distruttive. La storia di una necessaria apocalisse in cui redimere tutti i peccati, ad esempio, potrebbe risultare altamente auto-distruttiva, specie in questo momento storico. L’azione di molti mi pare infatti inibita dal credere che, in fondo, l’umanità meriti la catastrofe ambientale e la conseguente estinzione per via dei “peccati commessi”. Le catastrofi climatiche, perciò, metterebbero “le cose a posto” e, in fondo, “il pianeta e gli altri esseri viventi staranno meglio senza di noi”. Non si capisce come sia possibile, comunque, che in nome del fuoco purificatore, del bagno di sangue e d’umiltà di cui gli umani necessiterebbero, debbano estinguersi decine di migliaia di specie animali e vegetali che, secondo questo schema, sarebbero –allo stesso tempo- sia angeli vendicatori che vittime sacrificali.
In buona sostanza: mi pare legittimo credere che le nostre civiltà si fondino su trame narrative, ovvero su aspetti immaginari assai più che su qualunque aspetto materico. Probabilmente, è proprio in virtù di questa caratteristica che ci è venuto così naturale sdoppiare le nostre esistenze nel mondo virtuale, arrivando a trascorrere gran parte del nostro tempo in non-luoghi, privi di un corpo fisico e dotati di confini simbolici. Eravamo da tempo pronti a un simile trasferimento e, in realtà, non è stato altro che un ulteriore passaggio di livello. Già dal momento in cui abbiamo cominciato a produrre storie e a persuadere intere comunità della realtà oggettiva rappresentata in alcune di esse, le nostre vite hanno cominciato a slittare su un altro piano, creando qualcosa che non saprei come altro definire se non con l’espressione “realtà parallela”. È mia personale convinzione –rinforzata dalla lettura di Gottschall- che gli esseri umani abbiano abbandonato la realtà fisica già da centinaia di migliaia di anni. Lo abbiamo fatto assai prima dell’arrivo di internet o delle reti sociali. La civiltà sumera (o greca, o medievale, persino quella dei primi villaggi neolitici) era già proiettata su un piano di realtà virtuale. Viviamo al-di-là dello spazio materico almeno da quando abbiamo cominciato a credere nelle storie che andavamo creando e ad agire in base a quelle credenze. La realtà in cui continuano a vivere gli altri animali e gli esseri vegetali, comunque, ha ben poco a che vedere con la nostra, e forse è per questo che ce ne sentiamo così distaccati da non riuscire a comprendere le conseguenze della distruzione ecosistemica che andiamo perpetrando. È come se l’eco delle conseguenze della devastazione ambientale arrivasse da un altro mondo; è come se il nostro sistema vitale non potesse essere davvero annichilito da quel che accade “laggiù”. Credo che ciò dipenda dal fatto che la realtà materica dell’ecosistema e la realtà virtuale in cui abitano le società umane condividono lo stesso spazio, ma non lo stesso tempo.
Come che sia, è chiaro che –a questo punto- siamo entrati nel campo dell’interpretazione soggettiva del testo più che nella semplice rappresentazione di ciò che il testo esplicitamente afferma. Se, infatti, ritengo che questo libro sia fondamentale e che i suoi temi siano centrali per l’evoluzione umana, è perché mi pare di intravedere non pochi rischi nel consumo ipertrofico e/o inconsapevole di storie. È probabile che io tracci una linea arbitraria tra quel che Gottschall afferma e, ad esempio, la teoria memetica di Dawkins. Ciò nondimeno mi pare sensato sollecitare una certa attenzione a riguardo. Mai come oggi siamo bombardati da storie. Avere consapevolezza del potere generativo che esse hanno e della funzione che svolgono, ci consente di avere un certo controllo o, quantomeno, di poterle tirare fuori dal regno del subconscio per guardarle in azione; senza limitarci a esserne inconsciamente condizionati; il tutto a prescindere dalla loro validità scientifica, dalla loro attinenza alla realtà di fatto o dalla loro utilità psicologica, sociale ed esistenziale.
Anna Coluccino
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