La sociologa turca Pınar Selek, una delle numerose vite reali citate in questo bel libro di Valérie Manteau, Il solco, parla delle Istanbul che muoiono e delle Istanbul che nascono, chiedendosi, esisterà ancora, la mia?

La protagonista arriva a Istanbul per inseguire un amore sfuggente, attivo politicamente, nella Istanbul del 2015, con i moti di Gezi ancora freschi nella memoria, e il tentativo di golpe del 2016 ancora da venire. E da subito si fa notare quella che è una caratteristica del romanzo e della vita di quella Istanbul che diede vita alle proteste di Gezi, e cioè la forte commistione tra vita politica e vita personale: quella che i turchi stessi chiamano “depressione nazionale”, un crollo della libido “perdurante mesi, o anni”, dopo il fallimento della spinta riformista di Gezi, la vita politica che influenza quella di coppia della protagonista e il quotidiano dell’amante turco senza nome, giornalista e frequentatore assiduo di un locale sulla riva europea frequentato da turchi radicali e di sinistra, sempre sotto minaccia di chiusura, che ospita anche la redazione della sua pubblicazione semi clandestina.

Ai ritmi ondivaghi della relazione intima della protagonista si affianca la dimensione più concreta della sua indagine su Hrant Dink, giornalista armeno e uomo di pace, assassinato da un nazionalista turco nel 2007. La narratrice ne segue le tracce fisicamente, andando a visitare il luogo dell’assassinio ma anche quelli dove Dink ha vissuto, studiandone la storia familiare, leggendo biografie e parlando con chi lo ha conosciuto più o meno intimamente, scavando e esplorando il rapporto di Hrant con il suo essere armeno, e quello della Turchia con questo popolo, allo stesso tempo.

A fare da sfondo a questi due filoni della storia, ci sono la città di Istanbul, sempre mutevole, amata e potente, i suoi quartieri e la sua storia recente: le ferite riportare dalla città negli ultimi anni sono tutti citati, dagli attacchi terroristici a Sultanahmet e al Reina, al tentativo di colpo di stato e la violenza che ne è conseguita, al pestaggio di un negoziante coreano, colpevole di ascoltare i Radiohead e bere birra prima del tramonto durante il Ramadan, fino all’incarcerazione ed il processo della scrittrice Aslı Erdoğan, scrittrice che conosceva e supportava la causa di Hrant Drink, e della filosofa Necmiye Alpay.

La narratrice percorre le strade di Istanbul, su per le scalinate arcobaleno del suo lato europeo e sul lungomare del lato asiatico, osservando la sagoma della città vecchia contro il tramonto, dividendo ciambelle al sesamo coi gabbiani sui traghetti, passando da una riva all’altra – quello con Istanbul è anch’esso un rapporto d’amore importante, che plasma la vita della protagonista mentre questa assiste al ripiegarsi progressivo della città su se stessa, senza mai avere il coraggio di lasciarla. Il lettore accompagna la narratrice nelle sue passeggiate, e nell’esplorazione dell’affascinante mondo dei disobbedienti e dei resistenti turchi, armeni e curdi che animano la città nonostante tutto, nonostante la piega sempre più illiberale presa dallo stato centrale.

Valérie Manteau, parigina che vive il Mediterraneo tra Marsiglia e Istanbul, ha vinto il premio Renaudot nel 2018 con questo racconto, che è allo stesso tempo diario intimo, inchiesta e romanzo, tradotto da Sabina Terziani ed edito da L’Orma Editore, nella collana KreuzVille, che ha l’obiettivo di “mostrarci quello che abbiamo sotto gli occhi”: esattamente ciò che fa Manteau con questo suo romanzo, scritto rigorosamente al “presente intimo”, come lo ha descritto Annie Ernaux.

Paola Natalucci