Anno 1 | Numero 8 | Maggio 1998

1938

Un’Italia vestita della geometrica linearità dello stile fascista, scempio all’arte, abbandona a sé le sorti, malaugurate, di una tradizione culturale ed artistica; i barocchismi non sono più tollerati. Quella fascista doveva essere la guerra della “civiltà contro la barbaria”, così mentre si costruivano vie nelle terre conquistate, vittorie dell’imperialismo coloniale, si offrivano alla distruzione i settecenteschi palazzi che nel sud della nostra penisola era – no straordinarie testimonianze di un’altra dinastia, ormai trascorsa.

Lì, tra le terre inchinate ai piedi del Vesuvio, un popolo che ne invoca costantemente la calma, timoroso delle sue ire devastatrici, afferma la dignità della propria cultura in una storia che ne farà sempre una “questione”.

Ciò a cui assistiamo attraverso il palcoscenico del romanzo di Maria Orsini Natale Il terrazzo della villa rosa (Avagliano Editore) sono le vicende di una comunità campana, rappresentata con attenzione anche nel suo aspetto generazionale. I protagonisti che vivono la fatiscente settecentesca villa dei Savelli, nobile casata alla quale apparteneva tutta la proprietà, “figuranti di una rappresentazione continua, sgranavano su quella loggia l’uguale ripetersi e lo straordinario dell’esistere: tutto il sommesso, il piccolo, il prodigio del quotidiano, del consueto, del miracolo giorno dopo giorno.” Così in un paesaggio che aveva a nord il Vesuvio e a sud Sorrento e le isole, quelli della loggia abitavano le nove camere della villa rosa – ricordo dello splendore della corte borbonica – umilmente e generosamente. Eredi di una cultura forte, i protagonisti di questa storia rappresentano una comunità in cui antiche e più giovani generazioni vivono quel particolare momento storico condividendo speranze e delusioni, risate, lutti, scope e catini senza dimenticare mai le antiche regole, fatte di rispetto e tolleranza, in quella loro cultura del vicinato. La terra dei Savelli costituiva la loro isola felice: tra i filari di pini – un elegante braccialetto chiuso da un fastoso portale come fermaglio – tra il profumo delle ginestre quelli della loggia stendono le lenzuola rattoppate. Sventolano all’aria, come bandiere, riscaldate dal sole, e il profumo che si sente non è solo quello dei fiori ma anche quello del fresco di bucato.

In questo contesto ogni personaggio è la rappresentazione di una storia in un unico, più ampio, racconto. Vicende di tradimenti, illusioni e disillusioni sentimentali si accompagnano a quelle più difficili e sofferte di- scelte politiche o esistenziali. L’annuncio dell’armistizio e il vuoto istituzionale creatosi dopo quell’8 settembre ’43 crea confusione ma è anche l’inizio per un riscatto. Così Michele, schedato come anarchico e poi come sovversivo, rappresenta l’antifascismo. Conquistato dal concetto di abolizione di proprietà privata e miglioramento per il proletariato, Michele, si distingue tra chi non capisce, perché quelle “sò parole troppo istruite.”

La storia di quelli della loggia è anche quella del barbiere, del falegname, di madri indaffarate e di ragazze indiscrete. La loro è un’unica vicenda che, mossa da illusioni e delusa nelle speranze li vede svolgere “l’azione dell’esistere come una minoranza etnica e vivere il terrazzo era come vivere una nave. E della nave il terrazzo aveva, nei giorni di bucato, grandi vele a navigare la fantasia.”

1980

I fili della storia si sono dipanati e le vite dei protagonisti si raccolgono in un gomitolo.

Un sud provato in tutti quegli anni di governo democristiano, gettato a terra dall’ira, non già del vulcano, ma dell’impietoso terremoto, conosce momenti difficili per la sua terra. Così la sua gente prova il fenomeno dell’emigrazione, perché si ha bisogno di lavorare ma anche per ripudio e necessità di fuga. Come è per Nicola, per il quale la separazione dalla propria terra non esula la possibilità di un ritorno, perché è anche questo un modo per riconfermare un’identità di sé confusa, che solo attraverso il contatto con le radici della propria terra può essere ristabilita. Mai completamente integrato in una società per la quale continuava ad essere un immigrato “terrone”, con una moglie che si vergogna dei suoi parenti perché parlano “meridionale”, Nicola lascia che gli eventi lo assalgano – come la separazione dalla moglie dopo una vita trascorsa insieme – e lo trasportino dolcemente e lentamente verso le braccia della sua terra che da sempre paventa e teme l’ira del Vesuvio perché, dicono i vecchi: sono i nostri peccati che la chiamano.

Paola Mazza

“Questo nostro intricatissimo sangue… Una polla, questo siamo, che sgorga alla confluenza di correnti dissimili e che fa disperato il nostro destino.”

Giornalista, poetessa e scrittrice, il nome di Maria Orsini Natale è legato al grande successo del suo romanzo di esordio Francesca e Nunziata, dal quale è stato tratto il film omonimo diretto da Lina Wertmüller. Visse a Torre Annunziata, alle falde del Vesuvio, ed esordì all’età di sessantanove anni con il suddetto romanzo rivelazione che ebbe nove edizioni curate dall’editore Avagliano e che racconta la saga di una famiglia di pastai amalfitani. Il romanzo fruttò alla Orsini il posto da semifinalista al Premio Strega. Vinse, nel 1995 il Premio Oplonti e il Premio Domenico Rea, e nel 1996 il Chianti Ruffino. Per Avagliano ha pubblicato anche Il terrazzo della villa rosa nel 1998, la raccolta di poesie Canto a tre voci, del 1999, i racconti La bambina dietro la porta del 2000 e Cieli di Carta del 2002. 

Fonte: Wikipedia

 

In libreria

Maria Orsini Natale
Il terrazzo della villa rosa
Avagliano 2004
Collana: I tornesi
179 p., brossura

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