La foto dei ragazzi sul tavolino nell’ingresso è la stessa che avevano usato per la lapide. (pag. 12)

Quanto ci rendono mortali gli oggetti? Restano immutabili e incuranti di fronte alla vita effimera degli esseri umani. Sono proprio gli oggetti, i protagonisti di 🔗L’inventario di quel che resta dopo che la foresta brucia, edito TerraRossa Edizioni, ed esordio di Michele Ruol, inaspettato finalista alla dozzina del Premio Strega 2025. Inaspettato perché poco comune l’arrivo in finale di una casa editrice indipendente, che “nasce con l’idea di provare a seminare parole fuori dai tracciati consueti.” E spesso è proprio quando usciamo dai sentieri battuti, quando deviamo dal corso principale, che scopriamo scorci di bellezza inaspettata. È ciò che è successo con quest’opera che io mi auguro di veder vincere, non solo perché è un testo che se lo merita, ma anche perché amo la scrittura sperimentale della bolla letteraria, che ti fa riflettere, a più livelli, sulla complessità di ciò che siamo.

Prima di tutti gli oggetti, 99, stilati in una sorta di inventario, quello del titolo, e numerati come a volerli catalogare, ci sono due bambini: Maggiore e Minore. Prima di questi due bambini ci sono Padre e Madre, che sono stati due sposi e prima ancora due fidanzati e poi Padre e Madre saranno di nuovo lì dopo che la foresta è bruciata, dopo che gli oggetti saranno ordinati per provare ad archiviare, insieme a loro, i dolori dell’evento che i due hanno subito. I due genitori saranno ancora lì, carichi di dolore per ciò che è avvenuto – una catastrofe per qualsiasi essere umano – carichi di domande soffocate, ma soprattutto circondati da questi oggetti, quasi sommersi da essi, tanto da sentire prepotente un bisogno impellente di ordine. Il titolo già da solo è una dichiarazione d’intenti: non c’è desiderio di ricostruzione, ma un’urgenza di raccogliere, nominare, fare ordine tra i resti. È un gesto profondamente umano, quasi archeologico: sfogliare ciò che sopravvive al fuoco per capire cosa siamo stati, e cosa potremmo ancora essere.

Dopo l’incidente in auto che vede coinvolti i figli, Madre e Padre si ritrovano a fare i conti con la realtà del dolore che scaturisce dagli oggetti inanimati. Sono oggetti incandescenti adesso, proprio come l’incendio della foresta. Il solo tocco può lasciare vesciche inguaribili sulle dita – e sul cuore. Come sfere di cristallo, questi oggetti hanno il potere di riportare Madre e Padre indietro nel tempo, fare loro rivivere i momenti con i figli e cercare se non di ricostruirsi, almeno di fare pace con il dolore e conviverci.

Nell’impersonalità dei nomi dei protagonisti c’è l’universalità del dolore umano. Siamo tutti Madre, Padre, Maggiore o Minore di qualcuno e se l’intento è quello di farci immedesimare per sentire il loro strazio, è vero anche che uno dei meriti più forti dell’opera è la capacità di non cedere né al sentimentalismo né al cinismo: il dolore è reale, palpabile, ma lo è anche la bellezza, che resiste, a volte in forme inattese.

La scrittura è precisa, lirica, a tratti spoglia come un albero dopo un incendio, ma mai sterile. Il ritmo è cadenzato e le frasi sono brevi proprio come si addice a un inventario. I capitoli si succedono uno dopo l’altro come fotogrammi, sospesi tra un “prima” e un “dopo”, in cui ogni oggetto, parola o ricordo viene passato al vaglio dello sguardo, come se potesse ancora raccontare qualcosa di importante, che è sfuggito.

Interessante anche la scelta dell’ordine non cronologico del racconto che invece si dipana tramite la descrizione degli oggetti, ognuno collegato intimamente a un episodio della vita passata, quella dove gli oggetti erano ancora materia e non cenere.

L’inventario è dunque un atto di cura e resistenza, un elenco fragile ma necessario per attraversare i resti, che lo si voglia o no, che ci si riesca o no, con occhi nuovi.

Veronica Nucci