Ho scelto di leggere questo romanzo perché sono rimasta attratta dalla copertina calda e cupa al tempo stesso. Complice del colpo di fulmine è stata la sapiente libraia in questione che, dopo avermi rassicurata sulla bellezza del romanzo, mi ha anche ammonita dicendomi che sarebbe stata una lettura impegnativa, “una di quelle ti aggrovigliano lo stomaco” ha detto. In effetti, per affrontare la lettura del romanzo di esordio dell’autore salentino Andrea Donaera, Io sono la bestia (NN Editore), mi sono subito resa conto di quanto fosse necessario predisporsi a una serie di compromessi come spogliarsi dei propri abituali criteri di giudizio  abbandonandosi al fluire delle parole e delle immagini potenti che questa lettura è in grado di suscitare, senza opporvi resistenza. Affrontare queste pagine significa fare un salto nel vuoto apnoico in cui si precipita dopo aver vissuto brutto spavento e dal quale ci si riprende se non dopo averlo metabolizzato.

È proprio da un salto nel vuoto, quello di Michele Trevi figlio quindicenne di un capo clan della Sacra Corona Unita, che la narrazione prende il via. Il ragazzo, amante della musica e della poesia, pare un alieno all’interno del mondo che pian piano gli si delinea intorno: sarà forse questa sua vena romantica e appassionata che lo indurrà a togliersi la vita dopo che Nicole, sua coetanea compagna di scuola di cui è innamorato, rifiuta un suo regalo prendendosi gioco di lui? La risposta pare risiedere in questo gesto estremo e disperato ma troverà ulteriori strade nelle storie e nelle vite di coloro che hanno fatto parte dell’entourage di Michele.

Il primo a comparire sulla scena narrativa è Mimì, IL PADRE, in preda ad una folle disperazione durante la veglia funebre del figlio. Dolore e rabbia per questa morte inaccettabile si alternano in lui palesando i primi tratti di una personalità variegata:

“E Mimì pensa che li ammazza tutti. Tutti, se non se ne vanno da lì, se non lo lasciano solo, in quella sala, Mimì fa un macello, li ammazza tutti”.

Eccolo il dolore sordo e fragoroso di Mimì che lo rende un personaggio forte, incontenibile, capace di una serie di azioni turpi e di considerevole violenza che, tra le altre cose, spalancano le porte di una realtà mafiosa fatta di sangue, legami famigliari malti, condanna, vendetta e tanta, tanta paura.  Intorno alla figura di Mimì gravita un mondo fatto di omuncoli o caniminchia (come li chiama Mimì), di padri e figli che si annientano a vicenda perpetrando le storture dei loro rapporti insani di generazione in generazione e degli altri componenti della famiglia. Tra questi Marta, la moglie devota di Mimì le cui mani odorano costantemente dei cibi che cucina, Arianna, la figlia superstite e Veli, l’innamorato di quest’ultima. Ognuno di loro, con il proprio dramma personale, è funzionale alla pervadente ossessione di Mimì; ottenere vendetta per un figlio andato perduto.

Questa storia famigliare procede per immagini o meglio, per scene in apparenza slegate tra loro ma in realtà unite dal tormento incessante di Mimì. Nella lettura colpisce la presenza della parola BASTA! che il personaggio ripete dentro e fuori di sé come fosse un refrain ossessivo, un desiderio, un presagio:

ʺquello che si risponde è che lui basta, basta, ecco, la parola che gli preme, non è esatto che gli preme, è esatto che gli rode, dentro, una specie di cancro, dentro, la parola basta, Mimì ci pensa, mentre guida, guida verso quella casa, la casa della moglie, la casa dei figli, della figlia”.

È in questa interiezione lapidaria che trova spazio la personalità tagliente di colui che detta la sorte dei vari personaggi oltre che il ritmo di una vicenda che, grazie alla poetica letteraria di Andrea Donaera, si imprime nella memoria del lettore in modo indelebile. L’autore, infatti, sceglie le parole con il cesello del poeta ponendole una dietro l’altra, spesso all’interno di intere pagine senza punteggiatura, in un crescendo emotivo che lascia senza fiato o spazio per andare oltre. Confesso che sovente, durante la lettura, ho sentito la necessità di fermarmi: tante le immagini, le sensazioni, le melodie suscitate in me da questa letteratura lirica e sapiente che hanno necessitato di tempo e fiato per sedimentare.

Io sono la bestia, ambientato nel 1994, anno simbolico di un periodo storico in cui la Sacra Corona Unita era molto più pervasiva di oggi, è una lettura meravigliosamente dura, a tratti difficile, perché scava, senza sconti o edulcorazioni, nelle viscere del male, dell’odio e della vendetta. Chi è la bestia? Ci si chiede ad ogni pagina che voltiamo. La bestia è Mimì, vien subito da pensare, che rapisce Nicole, una ragazzina quindicenne, rinchiudendola in un casolare di campagna sotto la stretta sorveglianza di Veli, un ragazzo che a sua volta sconta la sua pena di vita? Ma la bestia è anche Veli che, seppur con grazia commovente, è il carceriere di una ragazzina in attesa di giudizio? O la bestia è Michele o Vincenzo o Marta o Arianna? In questa polifonia di voci, come in ognuno di noi, c’è una componente più o meno sviluppata di MALE ma lì, in balia delle regole di una organizzazione criminale e mafiosa, certe cose paiono quasi normali. I personaggi stessi sembrano accettare con una certa ineluttabilità i loro destini “bestiali” in cui le regole e i riti del clan non verranno comunque mai messe in discussione. È questo che colpisce. Donaera racconta una storia famigliare visceralmente violenta e situarla all’interno di una realtà mafiosa sembra avergli, in qualche maniera, facilitato il compito: ai “boss” e ai figli dei boss” tutto sembra essere permesso, loro e le loro azioni aberranti (ossa spezzate, crani fracassati, corpi sciolti nell’acido) diventano depositari di una falsa giustizia il cui unico fine è annientare il naturale fluire delle relazioni, avvilire la dignità umana, spezzare la vita e annegarla in un mare di sangue.

Ma la bellezza e la purezza del bene, qua e là, appaiono con un fulgore che acceca così come accade a Veli, carceriere di Nicole che in più occasioni ci fa dubitare del suo animo impermeabile ad ogni emozione:

Con questa ragazzina io non lo so più cosa voglio. Con questa ragazzina mi si rovescia addosso l’inconscio, come un calamaio sul foglio, mi macchia tutti i pensieri. Con questa ragazzina rischio di non capire più niente – neanche di me stesso.

O come accade a Mimì stesso per un brevissimo istante in cui:

Mimì non è più Mimì.

Si ritrova davanti due cose che non aveva mai visto prima: non sono occhi, sono altro. Mimì si ritrova in se stesso, come ritornasse, mentre quelle due cose lì davanti lo fissano, quei due occhi bagnati che non sono occhi bagnati, sono altro. Altro.

L’innocenza appare nascosta, talvolta, offuscata tra le tante parole di questa storia ma scorgerla all’interno di un mare denso, nero e vischioso che affronta con bellezza e coraggio la bestialità del male permette a chi legge di rassicurarsi e riprendere fiato. Proprio come accade in quei momenti di apnea della vita in cui tutto sembra perduto e invece non lo è.

Ombretta Brondino