Il rumore dell’acqua, il canto degli uccelli e il vento. Il cielo che scurisce sul bayou, proprio al confine con DeLisle, in Mississippi. La volta scorsa (recuperate il pezzo, se ne avete il tempo, se vi va) vi avevo accompagnato fino a qui.

Vi stavo raccontando di una donna, una scrittrice, che si chiama Jesmyn Ward. La stavo raccontando per come io la immagino.

È che ci sono cose che gli scrittori immaginano. Si tratta di visioni, si tratta di fantasmi. Certe visioni diventano scrittura, con il tempo, diventano racconti oppure romanzi.

La chiamano finzione.

Ma lo facciamo tutti, sempre: immaginiamo.

“Io nel pensier mi fingo”, ricordate? Mi fingo, il che vuol dire: immagino. Ce ne stiamo tutti lì, nessuno escluso, sospesi sul confine tra il mondo per com’è davvero (ma poi com’è, davvero? Chi lo sa) e le infinite versioni del mondo che produciamo ogni giorno, le sue infinite manifestazioni che nascono dentro le nostre teste, i suoi bagliori, i suoi fuochi invisibili, i nostri sogni ad occhi aperti, i nostri piccoli o grandi fantasmi che fluttuano nel corso delle nostre vite.

Scrivere non è che il tentativo, da parte di alcuni, di tradurre quel mondo di bagliori, quei fuochi, nella materia rigida e insieme plasmabile delle parole, del linguaggio, nella materia delle storie oppure dei versi, nella speranza che quei fuochi, quei bagliori, possano rivelare, e dunque consentire ad altri di cogliere, il senso del mondo per com’è, e che quel senso, intravisto solo per un attimo, scrivendo, arrivi a qualcun altro, venga riconosciuto e venga condiviso.

In fondo, la questione non è mai cambiata, per quanto qualcuno sostenga che lo sia e che la ricerca del senso e della verità si sia oggigiorno ormai ridotta a un cappottino logoro, custodito in un armadio da alcuni nostalgici e ritirato fuori all’occasione, per essere indossato con i suoi buchi e le sue toppe.

No, non è proprio così.

Le scrittrici e gli scrittori continuano a tradurre in parole le loro visioni, e, a meno che non si tratti di puro intrattenimento (un intrattenimento consapevole, intendo dire, senza troppi pensieri, ma anche se questo bisognerebbe ragionare) continueranno a farlo nella speranza di intravedere un senso, di cogliere un frammento di verità nel marasma delle cose, nel caos di fatti e accadimenti che formano la trama confusa della vita.

Accade qui da me, nella stanza in cui lavoro (e mentre scrivo questo, un pettirosso ha cominciato a becchettare briciole oltre la porta a vetri, sempre che io non stia semplicemente immaginando un pettirosso, sempre che non si tratti di una mia visione).

Accade dovunque. Accade di sicuro in Mississippi, in quel paese che conta poco più di 1.000 anime, nella contea di Harrison, e che si chiama DeLisle, dov’è nata e cresciuta e poi tornata a vivere la nostra Jesmyn Ward, proprietaria della contea immaginaria di Bois Sauvage, così come Faulkner lo era della propria e Haruf della città di Holt.

La vedo così, Jesmyn; la vedo in una stanza di una casa di DeLisle, una mattina qualunque, seduta davanti al suo computer, all’apparenza inoccupata, distratta o pigra, in realtà intenta a vedere cose che nessun altro ha visto, non ancora. La vedo immobile, con gli occhi socchiusi. Il cielo e gli alberi fuori da una finestra, nel frattempo. Rumori lontani: un cane che abbaia, la risata di un bambino, un’automobile che imbocca la strada davanti alla casa e poi scompare. Lei e le sue visioni: una famiglia che vive nel bayou, prima di un uragano; cani addestrati per combattere; due ragazzini sulla riva di un fiume; un lungo viaggio in macchina.

Bagliori, fuochi: un mondo dentro il mondo, o sotto il mondo o sopra, ma in ogni caso più vero del mondo, più autentico del mondo. La vedo tradurre quelle visioni, un giorno dopo l’altro, seduta in quella stanza davanti al computer, e riversarle nei suoi bellissimi romanzi, in tutti i suoi personaggi, che abitano nella contea immaginaria di Bois Sauvage.

Ma poi ci sono cose che accadono davvero, accadono nel mondo per com’è fatto (ma poi com’è, davvero? Chi lo sa), ed è già tanto, a volte è addirittura troppo; non serve immaginarle perché sono già lì, sono successe, e allora uno scrittore, una scrittrice, deve provare a raccontarle, deve provare a conservarle tentando di capire: “sono accadute e basta” non è sufficiente, non basta affatto.

La morte di un fratello, per esempio, un fratello amatissimo, ancora giovane. E insieme la morte, nel giro di una manciata di anni, di quattro amici, tutti ugualmente giovani. La sensazione di un destino, un destino terribile, che incombe sulle teste delle ragazze e dei ragazzi neri di DeLisle, del Mississippi, degli interi Stati Uniti e non solo. Il timore di non poter sfuggire a quel destino, e il bisogno, la necessità, di riportare in vita, almeno sulle pagine, ciò che parrebbe perduto per sempre.

Non è finzione, questa (per quanto la memoria sia comunque una questione narrativa e tutti i ricordi siano storie, e sia dunque difficile, o impossibile, tracciare un confine). Non sono romanzi, quelli che ne derivano.

Li chiamano memoir.

E così lei, Jesmyn, seduta nella sua stanza davanti al computer, abbandonando per un po’ la stupefacente contea di Bois Sauvage e i suoi abitanti, mettendo a riposo tutte le sue visioni, è tornata con la mente e il cuore e la scrittura a DeLisle, in Mississippi, coi piedi ben piantati in quella città di poco più di 1.000 anime al confine col bayou, e ha raccontato per noi, in Sotto la falce – un memoir, appunto – la storia di quelle morti, la morte tragica dell’innocenza e della giovinezza, la morte che attraversa una comunità sussurrando a chi la compone “voi non siete niente”, e che arriva a sembrare destino, e raccontando anche se stessa davanti a quelle morti.

Qualcosa di grande e vasto… ha preso tutti i miei amici… Una grande oscurità incombe sulle nostre vite, e nessuno se ne accorge.

Dice di aver avuto paura, paura di non farcela. Dice che non aveva mai scritto un memoir. Dice di avere aspettato il più a lungo possibile, di avere scritto altro nel frattempo (i suoi romanzi, e Bois Sauvage). Dice che alla fine ha dovuto provarci: era arrivato il momento. Dice che l’ha fatto perché doveva farlo. Dice che l’ha fatto per loro, i ragazzi perduti e quelli che rimangono. Dice che ci vuole coraggio.

Senza l’eredità di mia madre non sarei mai stata in grado di guardare a questo passato di perdite, a questo futuro che di perdite me ne riserverà sicuramente altre, e scrivere la storia che ricordo, scrivere una storia che dice: Salve. Siamo qui. Ascoltateci. Non è facile. Io continuo.

Questa storia, che è una storia di perdite, d’accordo, diventa per noi lettori anche la storia della vita, della sopravvivenza della vita intesa come amore e come ricordo e come valore di ciascuno anche dopo la vita, appunto nel ricordo. Questa storia, questo memoir, ricuce insieme le due cose – vita e morte – e ci ricorda che ci vuole coraggio, e che ciascuno di noi deve combattere per coloro che ama, per tutto ciò che ama, perfino quando sembrerebbe troppo tardi.

È così che gli esseri umani dormono e si svegliano e combattono e sopravvivono.

E allora (ormai il pettirosso se n’è andato da un bel pezzo) allora dico a me stessa che si tratta pur sempre di visioni, che la scrittura resta questo, una visione, che sia finzione o meno. È il tentativo di afferrare un briciolo di senso, la rifrazione di quel prisma che è la verità. È il tentativo di afferrare qualcosa di intravisto soltanto per un attimo, scrivendo poi un romanzo oppure un memoir, chissà.

Perché qualcosa c’è, laggiù, sotto le cose che sembrano accadere e basta. Per noi esseri umani, l’espressione è accaduto e basta non ha proprio senso. Non ne ha mai avuto, credo. Noi siamo fatti in altro modo.

Qualcosa c’è davvero: bisogna solo che qualcuno di sforzi di vederlo, di raccontarlo e ricordarlo. Quando succede, che sia un romanzo, una poesia, un racconto o un memoir, un film o una sceneggiatura o un testo teatrale, quando succede dovremmo ringraziare.

Il vento continua a soffiare sul bayou, increspando la superficie dell’acqua. Usciamo dalla stanza in cui Jesmyn è seduta a scrivere – “Arrivederci, a presto”, le diciamo – usciamo dalla casa, ci incamminiamo lungo la strada verso il confine di DeLisle. Prendiamo per i boschi. Andiamo altrove. Lei, nel frattempo, continua a vedere cose che nessun altro ha visto, non ancora.

Elena Varvello

DeLisle, Mississippi