Per una lira è il titolo di una canzone di Lucio Battisti che comincia così: Per una lira io vendo tutti i sogni miei. E poi la voce a strisce di Battisti racconta la storia di qualcuno che a malincuore si distacca da una parte di sé. Ascoltandola, ho sempre pensato a chi scrive. In particolare agli esordienti. Chi, per la prima volta (e spesso per una lira) consegna il proprio destino al mondo. Nell’incertezza e nell’imprecisione, un esordio insegna a scrivere più di un capolavoro (anche quando le due cose coincidono: David Foster Wallace, La scopa del sistema, 1987). Per una lira è uno spazio dove leggendo le nuove voci della narrativa, italiana e straniera, metteremo in luce alcuni aspetti di un romanzo legati al gesto dello scrivere per la prima volta, ovvero alla scoperta della propria voce.

Alessandra Minervini tiene corsi di scrittura, scrive e legge molto. Il suo sito è alessandraminervini.info.


Tutto mio finché guardo di Jessica Tonelli
Tutto mio finché guardo, Jessica Tonelli, Affiori, 2025

Una bambina vive in un piccolo paese dove il tempo sembra scorrere più lentamente. Le sue giornate sono scandite dai giochi in strada con gli amici, le ginocchia sbucciate e i pomeriggi sotto il sole caldo dell’estate sognando il mare lontano. La sua vita è fatta di piccole certezze: l’orto dietro casa, le storie che le racconta la nonna e l’amore per la sua bicicletta. Il mondo comincia a cambiare quando arrivano le prime delusioni dell’amicizia, i primi grandi addii, i tradimenti e le incomprensioni. Proprio in questo periodo di fragilità, un nuovo uomo, Gabriele, entra nella vita di sua madre. La casa si riempie di nuove voci e abitudini, e la piccola protagonista dovrà fare i conti con la nuova figura della sorella.
giulioperroneditore.com


Lezione n. 69

Diventare bambine per raccontare una storia

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«Le donne della mia infanzia erano tutte mia madre.»

Jessica Tonelli aveva deciso di scrivere una storia epistolare, qualcosa che riguardasse personaggi fittizi, forse innamorati, forse parenti, forse lontani oppure vicini. Aveva deciso di lavorare intensamente con le lettere. E in effetti molte di queste erano scritte veramente bene, sollecitavano curiosità. Soltanto che andare avanti, oltre la lettera, era difficile. Come un muro di gomma. Allora ho provato a dirle: perché non fai finta di essere una bambina che scrive ciò che pensa, sente e osserva? E cosa racconta una bambina? Mi fa, Jessica. Tutto ciò che vuole, le rispondo. Ha cominciato, non smetteva più. Siamo andate avanti un anno a diventare, attenzione non ritornare ma diventare, bambine. Alla fine di questo anno la bambina di carta e di storie è diventata realtà. È diventata 🔗Tutto mio finché guardo, il romanzo di esordio di Jessica, da fine giugno in libreria con Affiori, marchio editoriale di Giulio Perrone Editore. È un romanzo toccante, ironico, sincero. È un romanzo gentile e seduttivo, come solo le bambine sanno esserlo cioè con una storia estremamente ingenua che rimane addosso. È un romanzo che consiglio di leggere per diventare, attenzione non ritornare, diventare bambine e bambini di carte e di storie, padrone e padroni di tutti i desideri del mondo.

Scrivere è una forma consapevole di immaginazione. Soprattutto quando si parte da zero. Come hai sviluppato l’idea per questa storia, da che immagine sei partita? Cosa è cambiato in corso d’opera rispetto a ciò che ti eri prefissata scrivendo?

L’idea per questo libro è nata da un’immagine, nitida e potente, che mi ha catapultata indietro nel tempo: mio figlio, ancora piccolino, nel suo girello, che calcava l’asfalto della strada davanti alla casa della mia infanzia. Prima di comprare la casa dove vivo tutt’ora con mio marito e mio figlio, per i primi due anni abbiamo abitato la casa della mia infanzia, rimasta vuota dopo la morte di mia nonna. Vedere il mio bambino su quello stesso asfalto, che era stato il mio palcoscenico di bambina, ha scatenato un’ondata di ricordi ed emozioni. Quella scena ha agito come un interruttore, accendendo la consapevolezza di quanto quel luogo e quel tempo fossero stati fondamentali. Non pensavo, inizialmente, a un romanzo completo, ma a una raccolta di frammenti, di piccole storie che raccontassero la quotidianità di quella via e dei personaggi che l’avevano popolata. Immaginavo di voler semplicemente fissare su carta quelle sensazioni, quei volti, quei giochi, quasi a preservarli dal tempo che passa. Volevo disegnare il microcosmo di un piccolo paese attraverso gli occhi di me bambina, mettendo in luce le figure femminili che mi avevano circondata, le regole non scritte degli adulti, le scoperte fatte in sella alla mia biciclettina. Ma poi, scrivendo, il pensiero iniziale è cambiato, e anche parecchio. Quella che doveva essere una semplice collezione di ricordi ha iniziato a prendere una forma più organica. Le singole immagini hanno cominciato a connettersi, le emozioni sparse si sono legate in una trama più profonda e universale, abbandonando, per sempre, l’autobiografismo.

L’arrivo della famiglia allargata nel romanzo, ad esempio, è diventato un fulcro narrativo che inizialmente non avevo pienamente focalizzato. Il libro è diventato una sorta di indagine su come le esperienze dell’infanzia, anche quelle più dure, possano forgiare il carattere e aprire inaspettate forme di accettazione e felicità. Non era più solo un atto di memoria, ma un vero e proprio viaggio di scoperta personale attraverso la scrittura.

«Mia madre, cominciò per caso a lavorare in uno scatolificio a quattordici anni e ci rimase per sempre. Quando tornava dal lavoro e le saltavo in braccio, il suo odore di fabbrica, cartone e macchinari giganteschi che la inghiottivano per otto ore al giorno, allontanandola da me, mi rassicurava fino ad amarlo. Se potevo annusarlo, voleva dire che lei era tornata a casa, al sicuro con me.»

Chi è la protagonista e quale visione del mondo rappresenta e prende vita intorno a lei?

La protagonista è una bambina che si muove tra i cinque e dieci anni per le vie del suo piccolo paese, un intreccio di spensieratezza e dure realtà.

Quando gioca spensierata con gli amici della via, o con la sua amica del cuore o in sella alla sua bicicletta, con cui esplora mondi invisibili a chiunque altro, il suo sguardo è attento, quasi fotografico, coglie ogni dettaglio. La sua voce è un flusso che trasforma il quotidiano in un mondo intimo. Ma quando conosce il peso delle decisioni degli adulti, anche quelle che le appaiono inspiegabilmente crudeli e soprattutto imposte, il suo sguardo cambia. Si vela, diventando più profondo, malinconico. È uno sguardo che si posa su tutto come un occhio ferito, cogliendo le sfumature di ogni ingiustizia, il non detto dietro le parole. La sua voce, allora, si fa introspettiva, a tratti silenziosa, attraverso percezioni che diventano consapevolezze precoci, mostrando la profondità di un animo che si interroga e resiste, aspettando di crescere. Mentre i giorni della sua infanzia volgono al termine, una nuova sfida si affaccia: l’arrivo di una famiglia allargata. Inizialmente imposta, questa nuova realtà si trasforma in qualcosa di inaspettato, aprendole la strada verso l’adolescenza con un sorriso. Il suo sguardo, prima abituato a cogliere le crepe e le ombre delle decisioni altrui, ora comincia a posarsi sulle persone con una curiosità diversa, meno guardinga. C’è una luce nuova, una crescente accettazione, mentre osserva le dinamiche di questa famiglia inaspettata. Non più solo un’attenta osservatrice di ingiustizie, ora il suo sguardo si fa anche ricercatore di affetti, capace di riconoscere le piccole aperture e i gesti gentili che legano per sempre.

Le sue riflessioni si arricchiscono di speranza per le nuove connessioni che si stanno formando. È la voce di una bambina che, affacciandosi all’adolescenza, sta imparando a dare un nome a emozioni complesse e a scoprire che l’imprevisto può fiorire in qualcosa di bello.

«Per me l’Africa, così lontana e misteriosa, erano gli odori che si attaccavano sui vestiti di zia Livia e nient’altro. Lei, rispetto alle sue coetanee, era molto emancipata, infatti guidava la macchina. Mi disse un giorno che dovevamo andare a fare la spesa, io mi aspettavo di andare a piedi o al massimo in bicicletta, invece lei tirò fuori dal garage la macchina e mi disse, allegra, «dai, sali». Io risposi «le vecchie non guidano», e esitai prima di aprire lo sportello.»

Chi sono i personaggi secondari e che “funzione” hanno rispetto alla protagonista?

Le donne sono il fulcro dell’infanzia della protagonista. Dalle figure centrali come la madre e la nonna, si dirama una rete di presenze femminili: le zie, la parrucchiera confidente, le vicine di casa e, soprattutto, l’amica del cuore con cui condividere segreti e avventure. Accanto a questo coro femminile, emergono due figure maschili chiave. Lo zio, presenza costante e rassicurante, e Gabriele, che irrompe nella sua vita, a stravolgere tutto, sposando la madre e introducendo la figlia, la sorella da accettare. Il paese stesso è un personaggio vivo, un mosaico di volti e abitudini che scandiscono il tempo. Gli amici della via, il gelataio con i suoi gelati a domicilio trasportati con l’Ape Piaggio, il vecchio dispettoso che buca il pallone, il contadino che spara col fucile per far scappare i bambini che gli rovinano il grano tenero coi tuffi a bomba, le suore con le loro regole e le loro benedizioni, la lattaia che porta il latte tutte le mattine. Tutti questi personaggi, dai ruoli principali a quelli più marginali, sono tasselli vivi che popolano le stanze che la bambina abita ogni giorno. Sono presenze che contribuiscono a costruire la trama ricca e complessa della sua infanzia.

«Il paese dove sono nata aveva pochissimi abitanti e ha continuato ad averne pochi fino a tutto il periodo della mia infanzia. Questo ci permetteva di conoscerci tutti, di essere una grande famiglia, a tal punto che si lasciavano le chiavi di casa sulla porta, si entrava nelle case degli altri e si accoglievano i vicini senza paura. Noi bambini eravamo un po’ figli di tutti, le sgridate ce le prendevamo anche dagli adulti che non erano i nostri genitori.»

I luoghi sono importanti nel tuo libro perché creano atmosfera e comunità, parlaci un po’ dell’ambientazione

L’ambientazione del libro è profondamente autobiografica. Ogni dettaglio, dal nome delle vie ai campi di grano che abbracciano il paese, è intriso di ricordi autentici. Ho immaginato uno zoom che, partendo dall’immensità dell’universo, si restringe progressivamente, arriva sul pianeta terra fino a concentrarsi sul microcosmo di una singola via, quella di fronte alla casa che ho abitato da bambina. Questa strada, un tempo solo un percorso, nella narrazione diventa una vera e propria placenta, un luogo sicuro e fertile che nutre non solo la protagonista, ma anche i piccoli cuori degli altri bambini che la abitano. È qui, in questo spazio intimo e circoscritto, che si è svolta la maggior parte della mia infanzia e che mi ha dato la spinta per scrivere questa storia.

Tu hai frequentato Il Tuo Anno di Scrittura, come hai fatto a gestire l’io che vive e l’io che scrive in questi mesi? Quanto è facile o difficile mantenere la motivazione e la creatività alte durante il processo di scrittura

Frequentare “Il Tuo Anno di Scrittura” ha significato confrontarmi con il divario tra l’io che vive e l’io che scrive, e per una procrastinatrice come me, è stata una sfida continua. Gestire l’io che vive, con le sue distrazioni e le sue urgenze quotidiane, ha richiesto un impegno ferreo per ritagliare e difendere lo spazio per l’io che scrive. Curiosamente, però, è stato proprio nelle attività più routinarie che i due “io” hanno iniziato a fondersi. Fare le pulizie, sistemare il giardino, fare la spesa, guidare l’auto o anche solo fare la doccia sono diventati momenti preziosi. Era lì, in quel tempo di attività automatiche, che l’io che vive si metteva in pausa e l’io che scrive prendeva il sopravvento, elaborando idee, dialoghi, sviluppando personaggi. La disciplina non si è rivelata un ostacolo alla creatività, ma il suo più grande alleato, permettendomi di sfruttare ogni istante.

Mantenere alta la motivazione e la creatività è stato, a dire il vero, estremamente difficile a tratti. Ci sono stati giorni in cui l’unica cosa che riuscivo a buttare giù erano poche righe sconnesse o appunti senza senso. La frustrazione era una compagna costante. Però, è proprio in quei momenti che ho capito l’importanza di non mollare. Ho accettato che la creatività non è sempre una musa benevola, ma spesso un muscolo che va allenato, anche quando fa male. La motivazione si è trasformata. Non era più l’entusiasmo iniziale, ma una determinazione più solida, radicata nella promessa fatta a me stessa di portare a termine il progetto. È stato un anno di alti e bassi emotivi, ma ogni riga scritta, anche la più sofferta, è diventata un piccolo passo in avanti.

«Le nuvole me le immaginavo un misto di cotone e zucchero filato, ma non appiccicoso.
Lassù c’era l’amore, e quando mia madre mi chiedeva quanto bene le volessi, rispondevo «fino al cielo». Un po’ perché il cielo mi sembrava altissimo e quindi anche la quantità del mio amore per lei, un po’ perché nel cielo, su una nuvola, c’era mio padre che ci guardava.»

Qual è la cosa più importante di te stessa che hai imparato durante il processo di scrittura

La cosa più importante è stata una lezione dura per una come me che tende a rimandare e cioè la dedizione incondizionata al lavoro e, forse ancora più cruciale, l’accettazione profonda della frustrazione. Di solito, se non mi sento ispirata, tendo a procrastinare, ma ho scoperto che si può scrivere anche quando, apparentemente, non c’è niente da scrivere, perché in realtà c’è sempre tutto. Ho imparato a stare con il disagio, a non fuggire di fronte al blocco o alla sensazione di vuoto che di solito mi spingerebbe a fare altro. È stata una lezione di resistenza e di mantenimento delle promesse, specialmente quella fatta a me stessa all’inizio di tutto e che tipicamente avrei infranto: scrivere ogni singolo giorno, qualunque cosa accadesse.

«A me non piaceva giocare con le bambole o le Barbie. Ne avevo, poche, ma le avevo anch’io. Coi capelli tagliati e le facce deturpate. Quello che mi piaceva del gioco era la parte iniziale e cioè costruire dimore, giardini, luoghi di villeggiatura, dove rifugiare quei pezzi di plastica consumata. Edificare.

Tu hai firmato con Affiori molto presto, rispetto all’invio, cosa pensi del passaggio da scrittrice nel cassetto a scrittrice edita?

Firmare con Affiori così presto, quasi immediatamente dopo l’invio del manoscritto, è stata un’esperienza surreale che ha catapultato, nel mondo, la percezione di me stessa come scrittrice. Il passaggio è stato vertiginoso e ha comportato una serie di cambiamenti, non solo esterni, ma soprattutto interni. Da scrittrice nel cassetto, il mio universo era privato, intimo. La scrittura era un dialogo con me stessa, senza l’ansia del giudizio esterno. C’era la libertà di esplorare, sbagliare, riscrivere infinite volte senza che nessuno ne fosse a conoscenza. Il libro era un mio segreto, un rifugio. Diventare scrittrice edita, invece, ha spalancato le porte su una dimensione pubblica. Improvvisamente, il mio segreto è diventato qualcosa da condividere, da offrire al mondo. Questa transizione porta con sé una grande responsabilità e anche una certa vulnerabilità. Non si tratta più solo di scrivere, ma anche di imparare a presentare il proprio lavoro, a riceverne feedback (positivi e negativi) e a considerarlo un prodotto che ha una sua vita al di fuori di me. La cosa più sorprendente è stata capire che il viaggio del libro non finisce con la parola “fine” del manoscritto, ma inizia davvero solo quando viene dato alle stampe.

«Noi sapevamo cos’era la pallavolo, le nostre eroine erano delle ragazze giapponesi di un cartone animato che guardavamo tutti i giorni immedesimandoci nelle vicende della squadra. Sognavamo di diventare come loro. Tutte volevamo essere Mimi Ayuhara che non solo era la protagonista del cartone, bensì il capitano della squadra, ma siccome Martina comandava come sorella maggiore, allora quando giocavamo nel cortile davanti casa, io dovevo per forza interpretare la sua amica Midori, che però non era inferiore, anzi, grazie alla grande amicizia con Mimi, la squadra di pallavolo riuscì ad ottenere grandi risultati sportivi. Tutto questo il maestro di pallavolo, arrivato in paese non si sa perché, non lo seppe mai.»

Che consigli ti senti di dare a te stessa da ora in avanti affinché il romanzo raggiunga più lettori possibili

I consigli che ho deciso di dare a me stessa sono:
Mantenere la mente aperta e curiosa. Ogni lettura, ogni domanda, ogni feedback è un’opportunità per vedere il libro da nuove angolazioni. Non dare nulla per scontato e essere sempre pronta a imparare, sia dalle critiche costruttive che dagli elogi. Essere la prima promotrice del mio libro, ma con autenticità. Nessuno meglio di me conosce l’anima di questa storia. Parlare del mio libro con passione, ma in modo genuino, senza forzature.

Costruire relazioni. Le connessioni sono preziose. Fare rete con altri autori, librai, lettori e professionisti del settore. Ogni contatto può essere una nuova porta per il libro. Non perdere il contatto con la mia voce. Ricordare sempre perché ho iniziato e proteggere quello spazio sacro della mia creatività. Pensare al futuro, ma godermi il presente. È importante avere una visione per il dopo, ma non lasciare che l’ansia per il prossimo progetto o la prossima tappa mi impedisca di godere di questo momento unico. Celebrare ogni piccolo successo e vivere appieno questa esperienza. Accettare il processo. Il viaggio di un libro è lungo e imprevedibile. Ci saranno momenti di euforia e momenti di stallo. Accettare che non tutto è sotto il mio controllo e imparare a fluire con gli eventi.

Ma il consiglio più grande, che è anche un auspicio, è quello di essere sempre grata, consapevole del privilegio di vedere la propria storia prendere il volo.

“Voglio che tu impari a catturare la bellezza del mondo con i tuoi occhi, così come io ho fatto con questa foto.”
Nella foto ingrandita c’ero io in bianco e nero ed ero bellissima.


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