Immaginate un mondo che da circa settant’anni è fermo, immobile e sempre uguale a se stesso. Il progresso, animato da quella scintilla divina che ha spinto l’uomo fuori dalle caverne portandolo a calpestare il suo lunare, si è improvvisamente arrestato. Immaginate che questo mondo sia popolato da una moltitudine sterminata di zombi, diversi da quelli che siamo abituati a vedere nei film e nelle serie tv. Non sono pericolosi, si aggirano lentamente per le vie delle città, mettendosi in fila di fronte a depositi comunali dove vengono distribuite razioni di carne, che sembra essere l’unica cosa che desiderano, ma che non sono in grado di procacciarsi da soli. Immaginate anche che il resto del mondo assista attonito e sconsolato a questa apocalisse terrena senza reagire, consumato dalla paura. Paura di essere contagiato, perché non esiste una cura e probabilmente nessuno la sta più cercando. Paura di non morire, perché gli zombi non invecchiano, non si decompongono e non muoiono. Non muoiono mai. Ma c’è una paura ancora più grande, perché esiste la concreta possibilità che un giorno tu, divorato dalla fame, smetta improvvisamente di parlare e di reagire a qualsiasi stimolo e, una volta uscito di casa, ti metta in fila insieme agli altri (fra cui probabilmente ci sono alcuni tuoi parenti e amici) ad attendere il tuo pasto di fronte a un deposito comunale, muto e affamato, per sempre.
È in questo universo malato e stanco che prende vita il sorprendente romanzo La Carne di Cristò Chiapparino, uscito per Neo Edizioni il 19 novembre scorso. Con uno stile diretto, essenziale, e fortemente evocativo l’autore ci accompagna in un viaggio mozzafiato attraverso gli occhi di un anziano senza nome che, alla soglia degli ottant’anni, attende la morte come una speranza e nel frattempo ricorda. Ricorda con nostalgia e rimpianto il mondo com’era quando lui aveva otto anni e che ora non esiste più. Mutilato nel corpo e nello spirito, trascorre il tramonto della propria esistenza prigioniero delle sue abitudini senili e della sua collezione fatta di fotografie, immagini e video di persone che gli assomigliano e che ai suoi occhi, appannati e disillusi, hanno vissuto la vita al posto suo.
E poi c’è un medico di nome Tancredi che sta indagando su una serie di pazienti che da qualche tempo gli portano in studio dei foglietti scritti di loro pugno, di notte, dal contenuto misterioso e apparentemente astruso, senza che loro ricordino nulla. Sta cercando in tutti i modi di risolvere questo mistero e anche lui ha paura, perché in un modo o nell’altro sa che in quelle parole senza padrone probabilmente si nasconde la chiave di ciò che sta accadendo.
Tra il dottore e il vecchio c’è un legame che costituisce l’architrave di questo racconto in un’alternanza ipnotica che accelera vertiginosamente fino all’epilogo finale, dove tutto sembra trovare un senso, laddove in realtà un senso sembra non esserci.
Se La Carne è da un lato la rappresentazione stupefacente di una tragedia silenziosa e subdola che il mondo sembra voler a tutti i costi ignorare e così facendo se ne fa lentamente inghiottire, dall’altro è il riflesso di un’umanità alla deriva che l’annullamento del confine tra la vita e la morte ha privato di ogni certezza. Ma in quell’incertezza c’è chi continua ad amare, chi si è arreso, chi si accanisce contro quei corpi vuoti con la ferocia propria delle bestie e chi, insieme a Tancredi cerca la verità, la propria verità.
“Ciò che ci distingue dal resto della materia (…) è la capacità del nostro cervello di creare immagini, simboli per tutto quello che vediamo, ascoltiamo, fiutiamo. (…) Non c’è grande differenza tra pensare a un bicchiere d’acqua, all’amore, al sapore delle patatine fritte o al risultato di due più due. Eppure, sono cose così diverse. (…) E quindi, se per un attimo il tuo cervello smettesse di elaborare simboli tu smetteresti di distinguere un bicchiere d’acqua dal resto dell’universo. Tutto sarebbe materia e niente più. Io penso che per loro succeda qualcosa del genere”.
Sullo sfondo, nei sogni e negli scritti inconsapevoli di Lucia, la moglie di Tancredi, risuona profetica la voce di Averroè, studioso e traduttore di Aristotele che aveva teorizzato l’esistenza di un intelletto pubblico, una specie di cervello dei cervelli, un collegamento tra tutti gli intelletti della terra.
Che cosa succede se l’interruttore si spegne? Qual è la verità? E in fondo, è davvero così importante? Probabilmente no e non lo sapremo mai. Perché alla fine “esiste solo la fame, esiste solo la carne”.
Edoardo Ghiglieno
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