«All’epoca Paco era un ragazzo cresciuto che si era lasciato rivestire da questo strano nomignolo per concedersi dei piccoli spazi nei quali poter essere diversamente sé stesso, immaginando un futuro che potesse eventualmente subentrare a quello che la vita gli stava proponendo, una sorta di piano B fantastico, nel quale ci si poteva immaginare di tutto, poiché comunque rimaneva una eventualità.

Sulla lavagna, accanto al disco, Paco aveva sistemato una serie di foto di viaggi all’estero con l’interrail, di vacanze in campeggio e foto di gruppo con i migliori amici dell’epoca; ce n’era una che lo colpì particolarmente, era da tempo che non ci pensava, era l’ultima foto fatta con Milo, un ragazzo disabile che spesso lui ed i suoi amici scarrozzavano per la città, cercando di rendergli la vita un po’ più allegra.

Erano quei tempi in cui i ragazzi decidono di fare qualcosa di buono, non necessariamente di utile, di buono nel senso sentimentale della parola, quella cosa che ti fa stare bene dentro e ti dà tanta carica.»

L’incontro tra Paco, ingegnere scrupoloso che porta dentro di sé un mondo da sognatore e un nome da chitarrista spagnolo e Milo, un ragazzino disabile, è esattamente il punto di partenza di una ricostruzione.

Di un viaggio.

Ripercorrere con la memoria un periodo importante della vita e cercare tra gli oggetti e i documenti del passato il filo conduttore di una storia vissuta intensamente, ma poi stemperatasi nell’evolversi delle vicende quotidiane fino a perderne traccia.

Paco ricostruisce il suo percorso su una lavagna con metodo scientifico, come in un’indagine investigativa, partendo dai luoghi della quotidianità, attraversando l’Africa e i Balcani per poi ritornare alla vita di tutti i giorni.

«La pianta dell’ospedale di Rabouni e il bigliettino di Agnes con la maschera erano gli ultimi oggetti che Paco aveva riposto sulla sua lavagna, insieme alla copertina del CD di Carlos Santana “Supernatural”, poi si era dato una pausa.

Era stremato da quel viaggio nel passato, aveva bisogno di mangiare qualcosa, aveva passato tre ore tra ricordi intensi, senza venire a capo di niente.

Aprì il frigorifero e tirò fuori una bibita fredda, del salame e del formaggio da spalmare, poi prese dei cracker e cominciò a mangiare con calma; aveva bisogno di darsi una pausa e guardare da lontano quella lavagna piena di indizi che non avevano svelato ancora una soluzione.

Non era un caso che si fosse interrotto proprio in quel momento; dopo il ritorno dall’Africa c’era stato un cambio di vita, un’ubriacatura di presente, di normalità quotidiana fatta di quello che bene o male fanno tutti nella normale vita di tutti i giorni, come guardare la TV, seguire il campionato di calcio, uscire con gli amici, parlare di sport e politica e ricercare qualche relazione sentimentale che potesse dare un senso a tutto questo.»

La chiave di Milo di Francesco Della Corte è una storia singolare, un racconto dove gli angeli sono mischiati alle favole e si materializzano, e compiono piccoli miracoli.

C’è la disabilità, trattata con discrezione e presenza costante, c’è il recupero della memoria, che poi chissà come facciamo a scordarci per davvero chi eravamo prima di essere quello che siamo ora e adesso.

C’è la voglia di dare la mano ai sogni di ieri, senza incatenarli, ma anche senza farli scivolare via.

«C’è un’antica storia che dice che Dio inviò alcuni suoi angeli sulla terra, perché voleva che gli uomini ritornassero a parlarsi tra di loro come Lui gli aveva insegnato all’inizio dei tempi, rendendoli diversi dagli animali; gli aveva dato un’anima e l’anima ha una sua lingua, che può essere compresa da tutte le anime del mondo.

Quando uno di questi angeli entra in una casa, è una benedizione per tutta la famiglia, a patto che questi si accorgano di lui; questo bambino è un tesoro che va custodito e protetto».

Natalia Ceravolo