È possibile spiegare un fenomeno complesso attraverso poche e semplici parole? Dovrebbero far questo i comunicatori; più raro, e per questo più prezioso, quando a farlo sono dei grandi scrittori.
Yu Hua è riuscito, nel suo splendido libro La Cina in dieci parole, a spiegare in maniera diretta cosa significhi essere cinese. Yu Hua utilizza poche parole per farlo – dieci, appunto – e da ogni parola sgorga un mondo limpido che fonde gli orizzonti personali e quelli collettivi.
Le dieci parole scelte, a prima vista, sembra siano parole secondarie e che non ci sia tra loro un nesso, un filo logico. Invece, leggendo, scopriamo di trovarci di fronte un vero e proprio manuale di storia umana contemporanea che scandisce i fatti che si susseguono in successione senza anticipazioni sul futuro o ingombranti flashback.
Per Yu Hua non si può non partire dalla figura simbolo per eccellenza: quella di Mao Ze Dong. In quella fase politica Yu Hua viene al mondo e compie gran parte del suo percorso formativo. La Cina di Mao viene dipinta e descritta come il Medioevo: il tempo e lo spazio sono rarefatti. Tutto è sotto il controllo dello Stato e dei suoi esecutori locali. I dazibao la fanno da padrone. Ed è proprio il dazibao la prima forma di scrittura in cui si esercita Yu Hua.
All’epoca della Rivoluzione culturale non si poteva scrivere altro, bisognava ricorrere a questa sorta di cahiers de doleance pubblici, in cui si accusava qualcuno, con motivazioni ampie anche se non sempre circostanziate, di essere controrivoluzionario. E, come nel Medioevo occidentale, l’accusato veniva isolato dalla società e messo sul rogo. Nel caso della Cina degli anni ’70 del secolo scorso, il rogo era un palco allestito ogni settimana in tutti i centri abitati, in cui i controrivoluzionari venivano pubblicamente offesi e picchiati senza alcuna remora da parte dei concittadini. Per assurdo che possa sembrare, i dazibao furono anche i primi “libri” che Yu Hua ebbe la possibilità di leggere. Non esistevano libri, come nell’Europa prima della diffusione dei caratteri a stampa. E noi, amanti di libri, non possiamo non sentirci completamente coinvolti dal capitolo “Leggere”, nel quale Yu Hua ci spiega come questo anelito fosse irrealizzabile durante la sua adolescenza. Come vagasse per la sua città, chiedendo disperatamente ma con circospezione, per non essere accusato di essere un controrivoluzionario, se qualcuno dei suoi amici possedesse un libro a casa. Ma per tutti l’unico libro consentito era il Libretto Rosso di Mao, simbolo di quegli anni rivoluzionari.
Dopo la morte di Mao, la Cina si risvegliò culturalmente da questo appiattimento. E Yu Hua ci descrive come sia stato fortunato a diventare scrittore proprio nel periodo in cui, dopo questa grande astinenza, fiorivano case editrici, giornali, e gli editori erano attenti alla qualità dei prodotti, che leggevano con attenzione e sapienza. Cosa che non accade più, confessa con rammarico. Ma la Cina del dopo Mao e dell’apertura riformista di Deng Xiaoping è tutta rose e fiori? Assolutamente no, secondo Yu Hua. Il processo che ha portato l’Europa a superare il Medioevo e a raggiungere la modernità è avvenuto dopo vari secoli, mentre lo sviluppo cinese è avvenuto in soli quarant’anni: troppo poco per poter consolidare le effettive differenze.
La Cina di oggi è pervasa dal fenomeno dello huyou, dell’intortamento. E questo ha causato una perdita dei valori collettivi che, nel bene o nel male, erano presenti al tempo di Mao. Yu Hua per questo afferma amaramente: “La mia preoccupazione è che, quando l’imbroglio s’imporrà come stile di vita, tutti ne faremo le spese, i singoli individui come il paese, in quanto, probabilmente, gli imbroglioni saranno vittime di se stessi, ovvero solleveranno la pietra per farsela cadere sul piede, come recita un detto cinese.”
Francesco M. Iandiorio
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