Nel romanzo di Elisabetta Foresti, troviamo una vera e propria lezione di scrittura creativa, dove il narratore è lì, tra le pagine, a cercare di ingannare il lettore, confondendolo: «La dissi tutta d’un fiato, la sincera verità. Come se esista una verità che non sia sincera. Ma può darsi, invece, che esista un’insincera verità, quel tipo di verità che non corrisponde alla realtà che si percepisce con i cinque sensi.» Il lettore, dinnanzi ad un narratore così inaffidabile, se dapprima appare confuso, subito dopo, si accorge di avere tutti i sensi accesi, all’erta… Inizia a cercare i dettagli, la colpa che è nei dettagli. Ma c’è una colpa? Il protagonista, Marco, ha ucciso il padre, e nell’incipit strepitoso, confessa. E un movente? C’è? Che importanza ha? Lo ha ucciso. Per l’avvocato è importante, per farlo uscire prima di prigione, ammettendo un raptus. Marco, però, non desidera confessare un movente che è lontano dalla verità, una verità, tuttavia, che appare ambigua. La realtà si sfalda, e allora, inizia a scrivere un quaderno, dove annota ciò che gli accade, nella realtà presente e in quella passata, ma gli eventi si confondono così come le parole, che lui non ricorda quasi più. Il tempo trasforma la memoria, modificando la realtà. Il tempo, la memoria, temi cari ad Elisabetta – la sua ex Fidanzata – che ama Kundera (Kundera che ama questi temi), che ama parlare per citazioni. E le citazioni, così tanto sbeffeggiate da Marco, rimangono, senza mutare, con il loro significato, perenne.

«Volevo parlare di mio padre ma ho cambiato idea. Perché in effetti detesto il disordine cronologico che sempre fa strage di dettagli, ponti irrinunciabili nell’universo dei miei ricordi dove regna una mescolanza assordante» scrive ad un certo punto, nel suo quaderno, dimostrando al lettore, ancora una volta che, quanto troviamo scritto, non è attendibile; saltando nel tempo, potrebbe rischiare di perdere dei dettagli importanti, dove può annidarsi la colpa. Colpa! Verità! E lui va a ritroso, affidandosi alla sua memoria, anche per parlarci di Elisabetta (non solo per metterci al corrente delle versioni che racconta all’avvocato su come lo ha ucciso), a cui il giorno prima della morte del padre, confida la sua intenzione di mettere fine alla sua vita, di farlo fuori. Gli eventi sono atemporali, dice, e «… la verità è che non esiste il tempo, o almeno, non esiste nel modo che intendono tutti. […] Il gatto di Elisabetta, per esempio, sono certo che la pensasse come me». È un tipo strano Marco, conversa col gatto che poi uccide, «Vedi micio, il tempo è solo un susseguirsi di diversità. […] E se non fossimo in grado di percepirle queste differenze? In un mondo dove tutto apparisse identico, il tempo, così come lo concepiamo, esisterebbe lo stesso? Mee, miau?»

La potenza di questo noir psicologico, sta nell’affrontare i diversi piani di narrazione, attraverso un lavoro magistrale che Elisabetta, tutor della Bottega di Narrazione, ha saputo regalare ai lettori, avidi di storie da raccogliere. I temi che fuoriescono dalle pagine del libro sono una sorta di fuochi fatui che segnano un percorso, oserei dire filosofico, oltre che psicologico, di cui tutti necessitiamo per recuperare la nostra storia. Quando leggiamo, cerchiamo dettagli, ma soprattutto colpe, anche nostre. Vediamo lo scorrere delle stagioni, percepiamo la perennità, ma dove arriva, la perennità? «Si dilata oltre la morte, si spinge fino alla morte, oppure si arresta qualche giorno prima, […] la perennità, la coerenza, la colpa, non c’è condanna, né risoluzione, né perdono, ma l’essere umano che sceglie di uccidere il padre è un traditore di quella perennità?»

La colpa è nei dettagli è un romanzo sull’irresolubile, ribadisce la scrittrice, con cui ho avuto il piacere di dialogare, che ha scelto come protagonista del suo primo romanzo, un uomo, e con estrema naturalezza ha affrontato un narratore maschile. L’altro personaggio importante ha il suo stesso nome, volutamente, per entrare anche lei nella storia, una storia in cui – noi – tutti, ad un certo punto, entriamo, trascinati dalle allucinazioni di Marco, che crede di essere drogato, e in quella cella vede altro, oltre il niente, ma «È evidente che quella mescidanza di forme che si muovevano come a parlarmi di non so cosa era il frutto di droghe. O forse davvero le nuvole intendevano comunicare con me?».

Mentre leggiamo, vediamo, ascoltiamo e sentiamo, anche David Bowie con i testi che piacevano ad Elisabetta, e tutto prende forma, nello spazio e nel tempo, dove incrociamo il maggiore Tom, che perdendo il contatto con la torre di controllo si abbandona nello spazio.

«Contro il tempo che stringe vuoi essere come sei.»

Alessandra De Angelis