Ciao Giulietta, volevo scrivere una cosa sul libro di tua madre, ma non una recensione né una critica dotta. era una cosa che volevo dire a te.

A me Antonia metteva soggezione. Di tutta l’allegra brigata di originali, bizzarri, rumorosi, frenetici, malinconici compari del Laboratorio Teatro Settimo lei, per me, era un’anomalia severa. Appariva nel corridoio degli uffici, un appartamento al primo piano di una palazzina lontana dal teatro, dove andavo solo per le magagne burocratiche. Indossava il basco e un cappottino dallo stile vagamente retrò. Mi lanciava uno sguardo severo e proseguiva a fare le sue cose. Avevo più o meno vent’anni, assistevo i “compositori” Vacis, Tarasco e Curino nella creazione di uno spettacolo tratto da Tenera è la notte di Francis Scott Fitzgerald. Era il 1989.

Antonia aveva una voce profonda, velata dall’accento piemontese di una certa periferia. Diceva cose taglienti, faceva commenti precisi, qualche volta implacabili che a me mettevano in soggezione.

Trentatre anni dopo, in una busta dell’editore Sellerio, mi arriva il suo libro e finalmente capisco tutta quella soggezione: Antonia è cresciuta a Sparta.

Fino agli inizi degli anni sessanta il più diffuso ideale italiano di educazione femminile non è diverso dall’agoghé dei giovani spartiati. Allevati a sopportare la fatica, il dolore e ad obbedire sempre, i rampolli lacedemoni e le ragazze italiche imparano appena a leggere e a scrivere perché la loro attenzione deve essere rivolta alla cura corpo: gli uni per la guerra, le altre per la ricerca di un buon partito da sposare. Per chi non si sottomette alla semplice equazione o è una lotta continua o una infinita collezione di compromessi.

Mentre nel resto del mondo moderno le donne vanno in orbita, fondano industrie, vincono premi Nobel per la chimica, la fisica, la medicina e governano aree del mondo difficili, qui, salvo rare eccezioni, restano l’appendice carina della società.

Tua madre e le sue amiche sono diventate adulte in una società arcaica tenuta insieme dal capillare presidio di un cattolicesimo appena sfiorato dalle novità del Concilio Vaticano. In una comunità che per secoli ha considerato le donne solo in funzione del loro stato civile: moglie di, sorella di, vedova di. Una società civile regolata dalla legge che impedisce di divorziare e di abortire, una legge complice della violenza con l’istituto del delitto d’onore, abolito solo nel 1981.

Che potevano fare le ragazze di periferia che sentivano il peso dell’eredità delle operaie, delle partigiane, delle scrittrici, delle attrici che avevano dimostrato che della tutela maschile potevano benissimo fare a meno? la rivoluzione non si addice alle ragazze per bene.

Per la maggior parte delle ragazze di quell’epoca è stato un movimento di liberazione lento ma costante, rispettoso ma copernicano. Niente molotov ma il costante rosicchiare frammenti di autonomia, di conoscenza, di libertà. Accorciare la gonna, disertare la messa, leggere fotoromanzi, stare fuori la sera diventano atti sovversivi che goccia a goccia fanno a pezzi una lunga storia di dame angelicali, signore delle camelie e figlie di Iorio. Una mutazione costante il cui traguardo resta ancora lontano da raggiungere ma che dai tempi di tua madre non si è mai fermato.

Quando leggi La compagna Natalia considera che è un romanzo di formazione nel quale la voce narrante ripercorre le memorie di un’adolescenza curiosa e quietamente turbolenta. Ma è anche e soprattutto un romanzo di fondazione di un nuovo genere umano che, fino a quel tempo, la storia aveva quasi del tutto trascurato. Un genere che stava reclamando il proprio posto nella vita pubblica con gesti che per te, ora sono più che naturali.

Eppure tua madre non ha scritto un romanzo eroico, un romanzo di lotta, una storia di rancore, di rivalsa. Le protagoniste frequentano una scuola per segretarie d’azienda (perché nello sforzo produttivo del paese, quello è ancora il posto delle donne), desiderano principi azzurri (o Arcangeli Gabriele – meglio se con una Fiat 128), sono incuriosite dall’esperienza elettrizzante del bacio. In questa storia non si trovano donne illuminate, piccole Rosa Luxemburg, Sophie Scholl o Gerda Taro che sventolano il vessillo della dignità.

Questa è la storia di una scema, in mezzo ad altre sceme che si confrontano con tizi ancora più scemi. Sono personaggi di periferia, intrisi di quella meravigliosa stupidità incosciente degli anni dell’adolescenza, quell’energia stupida che nutre le rivoluzioni buone. Ragazze che a forza di farsi piccole domande, a forza di affrontare piccoli turbamenti, intessono una storia di emancipazione, di fondazione di una nuova idea di donna, di società.

La compagna Natalia è per forza una storia insieme intima e politica, personale e collettiva, nella quale anche i gesti più banali e quelli più segreti assumono un valore quasi rivoluzionario. È questo suo valore epico che lo rende unico.

Natalia e le altre non sono Tom Sawyer, neppure David Copperfield o Pinocchio. Le ragazze di Antonia assomigliano di più a certi personaggi marginali di Jean Genet, al Momò di Una vita davanti a sé di Romain Gary. Personaggi che nella corsa alla vita sono costretti a partire qualche metro indietro perché diversi dall’ideale patriarcale che domina la vita, la religione, la politica. Personaggi talmente abituati a perdere che le gare che le prendono con un sorriso. Per i quali la più piccola vittoria è un trionfo. E come in quei personaggi c’è un fondo di leggerezza, un sapore di divertimento, una forza mai violenta, una gioia prorompente, l’ineluttabilità di una fioritura imminente.

Gli anni che ci dividono dal mondo dell’Istituto Tecnico Senza Senso per Annoiate Senza Avvenire attraversano una frattura così profonda che raramente si è vista nel corso della storia. Riuscire a raccontare di quei tempi facendone sentire l’odore, la consistenza, il sapore brusco e anche la fatica ha qualcosa di sorprendente.

Il libro di Antonia è spartano anche nella forma. Secco, drastico, risoluto. È, come direbbero i conterranei di Natalia, un libro tagliato col piolèt: scolpito a colpi di scalpello, senza frivolezze e fronzoli perché solo così si poteva scrivere. Perché così si pensava, agiva e cresceva in quei tempi di confine. Così si amava a Sparta.

La compagna Natalia è come una vecchia canzone suonata ad una chitarra che, senza nessun effetto, nessun trucco, riesce comunque ad emozionarti. Ma raggiungere la semplicità non è mai stato facile (un altro teatrante diceva. “è la cosa facile che è difficile fare”). È difficile guardare indietro, trovare l’essenza degli anni intensi e mettere tutto quanto in fila in una storia di un tempo che non c’è più. Mentre leggevo mi è tornata in mente una canzone di Violeta Parra (anche se io preferisco l’interpretazione vagamente andina di Marcedes Sosa)

Tornare a diciassett’anni

Dopo aver vissuto un secolo

È come decifrar segni

Senza essere un dotto sapiente.

Questo non è tanto un libro da leggere, è un libro da ascoltare e da “sentire” come un pezzo di teatro. La lunga militanza di tua madre nel teatro si sente. La tessitura dei dialoghi, l’irriverenza dell’uso delle parole, l’ironia trattenuta e timida. Le scene scandite come su un palcoscenico.

Come ho scritto questo è un racconto personale e collettivo insieme, la storia di una generazione e il punto di partenza di molte altre generazioni, tra cui la tua. E, credo, sia una storia soprattutto tua. L’eredità più importante che un genitore possa lasciare ai propri figli: la ragione per continuare ciò che hanno lasciato d’incompiuto.

Lo so detto così, quel libro all’apparenza piccolo e leggero diventa subito pesante come un’Odissea. Ma, si sa, con gli spartani non è facile averci a che fare.

Ora puoi capire perché tua madre mi metteva in soggezione.

Livio Milanesio