Lettera indirizzata a Floriana Coppola dopo la lettura de La faglia del fuoco, resa pubblica per exlibris20
Budapest, 29 settembre 2019
Cara Floriana,
terminata la lettura di un libro di poesia provo spesso a scrivere una nota di lettura per restituire pubblicamente un punto di vista e incoraggiare qualcuno all’acquisto, qualora si tratti di un lavoro meritevole. Nel caso de La faglia del fuoco (Il laboratorio/Le edizioni n.d.r.), considero la mia missione ampiamente fallita. Quella che segue non è esattamente quella nota di lettura che avrei voluto scrivere, si tratta piuttosto di un appassionato resoconto privo di qualsiasi distacco emotivo. Il senso di tutto questo? Non ho altro modo per descrivere, se non in maniera del tutto eccezionale, lo spessore di questo libro che mi ha letteralmente preso le viscere come raramente mi è capitato nella lettura di opere recenti. Perdona (e perdonino anche i lettori che leggeranno queste parole n.d.r.) l’eccessivo entusiasmo. Spero altre figure, ben più autorevoli della mia, riescano a leggere questo libro con maggiore competenza, restituendo al tuo lavoro il respiro che gli spetta. Io non ci sono riuscito, chiedo venia in anticipo.
Per quel che mi riguarda, ho avvertito la necessità di sentirmi totalmente libero nel parlarne, non necessariamente ricercare l’esattezza dell’intenzione poetica, dunque lasciare che emergesse il trasposto emozionale di un lettore e dare alle mie parole uno slancio ampio e coinvolgente. La faglia del fuoco è senza dubbio la tua opera migliore, segno di una evoluzione poetica ancora più coerente e convincente. La scelta di puntare sulla prosa poetica è stata giusta e devo dire coraggiosa. Apprezzabile anche la strutturazione: un dialogo tra aforismi (collocati nelle pagine a sinistra) e componimenti poetici (nelle pagine a destra), qualcosa che si era già visto nella tua raccolta precedente, Cambio di stagione (Oèdipus), qui raffinata e portata a livelli eccelsi. La ricerca poetica ha trovato un approdo felice mantenendo i punti forti della scrittura che da sempre ti contraddistingue: un’espressione intensa e fluida che non scade mai, perfettamente rappresentata da un poetare sanguigno e viscerale.
Considero questo poema (lo è a tutti gli effetti) un bene prezioso perché parla d’amore come solo le grandi opere sanno fare. La tematica ai più suggerirà poco, ma ritengo che ci sia tanto bisogno di discutere e rappresentare con il dovuto carico poetico questo sentimento, in quanto elemento cruciale del pensiero e del quotidiano agire. L’amore di cui parli non finge, anzi si connota come un agente consapevole del carico di dolore e di gioia che ogni essere umano si porta dietro. Parli dell’amore nell’assenza, nella privazione e nel distacco, dell’amore che ci fa male e ci scava fino a cambiare la nostra fisionomia, un amore che diventa corpo, carne e agisce come desiderio. È fame che in certi momenti diventa bestiale, incontrollata. Eppure quell’amore di cui scrivi non è mai brutale, al contrario esplode di orgoglio e fierezza dalle proprie cicatrici: è come un reduce tornato sconfitto eppure coperto dall’onore delle armi, forte dell’esperienza vissuta. Un reduce porta con sé la lacerazione di un’ambizione perduta, la gloria dei tempi andati e la disperazione dell’irrealizzabile.
Parliamo anche della carnalità e della sensualità dei versi. Il corpo dispiega la bellezza svelando tutte le lacerazioni dell’animo. «L’assenza si fa cosa» dici, Floriana. Diventa un marchio sulla pelle, un’esperienza indelebile, un terremoto in grado di sconvolgere le nostre esistenze. L’amore è tutt’altro che rassicurante, ci porta a cercare per strada come i ciechi, vedere e non vedere o meglio desiderare di guadare e dissetare il nostro sguardo. In questa pulsione vitale così profonda e intensa, può capitare di innamorarsi dello stesso amore, essere «schegge spezzate sul cuore asciutto dell’altro» e mi viene da pensare che l’amore sia a volte una questione di metodo con cui riversare «ogni giorno un verso sulla bocca»: bisogna esercitare con estrema amorevolezza i nostri sentimenti senza dimenticare che «l’amore è un cane che viene dall’inferno». Come esseri viventi abbiamo la necessità di alimentare la scintilla dentro di noi. Aveva ragione Nietzsche quando parlava di avere un caos dentro che genera una stella danzante. Forse l’amore è tutt’altro che un approdo ed è più simile a un continuo proseguire, un progressivo cambiamento. L’amore si fa «lenza e amo», affermi. Amo come prima persona del verbo amare, ma anche come mezzo per pescare. Prima o poi tutti abbocchiamo alle parole e le facciamo proprie. Sono momenti, ma al tempo stesso anche carne e sangue di tutti noi. Eppure l’amore non resta e finisce col travolgere. Il desiderio si rivolge altrove in cerca di un Altro da abbracciare, lo sguardo si fa limite, separa i corpi.
Difficile non ferire o non essere feriti: in ciò sento una grande empatia con l’altro, un sentimento necessario per il perdono perché solo un’umanizzazione del pensiero, del desiderio e dell’istinto può portare ad abbracciare il carnefice e lo stesso si dica nei momenti in cui è necessario superare le colpe personali. È davvero il desiderio «uno sconto che strazia»? E se tutto fosse fuga dal vuoto, da ciò che non si riesce a vivere? La verità conta più della persona, sostieni, ma si coltiva sempre quell’aspirazione che ci porta a oltrepassare il limite, il nostro spirito fugge da qualcosa che potrebbe farsi atroce. E il nostro inconscio dà segnali in questo senso? Alla fine è sempre il corpo che ci separa l’uno/a dall’altro/a, così come sosteneva Platone, e vaga alla ricerca della parte mancante. Tante sono le domande che La faglia del fuoco pone e apre in una densità di senso e pensiero esistenziali voragini che rischiano di farci smarrire.
A noi non resta altro che la rappresentazione dell’umano, unico elemento tangibile di conoscenza oltre l’esperienza diretta, una “narrazione” della quale sei autrice di un capitolo, oggi più che mai, significativo. Per questa ragione ti auguro di continuare questa ricerca ovunque tu voglia andare.
Federico Preziosi
Uscendo dal ventre lo sguardo mette il
mondo davanti. Geometria piana che si
innesta nella pelle. E la nostalgia liquida
scrive ciò che è il passato. La madre e la
distanza. Prima esperienza.
Dove ti dimostri tenero là individui il tuo plu-
rale, dice Barthes. Abbiamo tutti il diritto alla
tenerezza. Anche tu che stringi i denti ogni
mattina e ti carichi un macigno sulle spal-
le. Un fiume, un seme sotto la neve, un fuo-
co che arde dentro le celle. Siamo onde che
si stracciano liquide senza far rumore, è in
quest’anello scuro di stanze il martirio degli
abbracci mancati. La disperazione di esserci e
non esserci ogni volta. Sono qui, non preoccu-
parti, torno a casa non ti lascio solo dietro la
trincea di pietre accatastate tra le mura e la
soglia della porta abbandonata dagli dei mi-
nori e dalle streghe. Nel talamo sudato, spalla
a spalla, lo scandalo osceno della rabbia che
si fa nido e ortica che infesta. Abbiamo tutti
diritto alla tenerezza, oltre le guerre, le batta-
glie, i trofei appesi e sanguinanti e noi guer-
rieri senza spada, gli elmi calati sulla fronte
apriamo forte il petto a questi assalti. Sono le
voci adesso che mancano, le nostre voci av-
vinte come squali. Ma è l’assedio d’amore che
io attendo come acqua pura di fonte a battez-
zarmi dentro.
Floriana Coppola
27 Gennaio 2021 at 21:13
Apprezzo immensamente questa lettera”non recensione” di Francesco Preziosi a Floriana Coppola. La considero più incisiva ed efficace di una classica nota di lettura, perché di sinceritá e profonditá disarmanti. Ed è stimolo forte per i lettori, che comprendono di trovarsi di fronte allo svelamento di una parola alta e umanissima. Leggerò di sicuro questo imperdibile libro di Floriana.
28 Gennaio 2021 at 11:56
Salve gentilissima! Se mi mandi copia del volume preparo una nota nel mio blog “poetrydream” .Mille auguri .