Nel nome della madre.

Itziar Ziga sceglie di incanalarsi in quel nome, Maribel Ziga, per raccontare la sua storia in un memoir potente e crudo, veritiero, talora commovente e talora ironico, allegro.

La felice e violenta vita di Maribel Ziga è un romanzo tagliente non solo perché è vero, una non-fiction brillante che racconta fatti realmente accaduti, ma perché l’autrice, giornalista, saggista e attivista femminista basca, usa il suo linguaggio e le sue modalità per rendere la vita di sua madre una vivida inchiesta, alla portata di tutti. Senza distinzione di genere.

Ziga ci regala la visione sotterranea ma forte che anche il passato più danneggiato, più duro, può essere metabolizzato attraverso la scrittura, la forma di elaborazione più intensa e duratura, poiché conserva il “passaggio di testimone” per le generazioni future, generazioni che l’autrice si augura si sleghino da lacci stretti e soffocanti, da soprusi ingiusti ammantati da un’ignoranza marcescente.  Tre anni di appunti sulla sua infanzia e sulla sua vita: per ricostruire il mosaico delle esperienze di sua madre, Itziar Ziga sa scegliere le parole con cura e non è un caso che il titolo del memoir si apra con l’aggettivo “felice” prima ancora di “violento”, richiamando il potere di reazione di sua madre, vittima di un patriarcato lesivo, vissuto sin dalla giovinezza in una Spagna dominata dalla dittatura franchista.

Sapeva che avrei scritto questo libro, perché è anche la mia storia. E perché sento il desiderio rivoluzionario di chiarire che non eravamo solo donne che hanno subito violenza, e che molto spesso eravamo tremendamente felici”.

Maribel Ziga è una donna piena di passioni: è intelligente ma non potrà continuare gli studi che avrebbe voluto seguire, Lettere e Filosofia. Si sposerà con un ragazzo carismatico di cui era molto innamorata e con il quale avrà due figlie, ma, la sua vita intera sarà condizionata dalle violenze di suo marito, lavorando sodo non solo in casa, in cui si occuperà di tutto ma anche fuori, nonostante nulla le fosse riconosciuto e tutto sarebbe stato invece dovuto. Preteso.

I ricordi sono come schegge, si incastrano in piccoli racconti, come tessere lucenti e importanti, che Ziga mette insieme nel suo memoir che si discosta da quelli classici dove si narra della ferita divaricandone i lembi, qui, esiste, sì, un processo simile, ma al contempo, una ricomposizione.

Ritornare anche solo per un momento ai ricordi della violenza di mio padre è stato terribile. Non so quante volte ho assistito a come picchiava brutalmente la mia amaxto (termine basco con cui si chiama la madre). Proverò comunque a fare un riassunto, e mai nella vita mi costerà così tanto scrivere alcune righe. Lo faccio perché devo. Lo devo alle donne, agli uomini, all’umanità che vuole voltare pagina del patriarcato”.

Il patriarcato è una delle forme più antiche di potere sulle donne, volto a gestire il loro ruolo riproduttivo e la loro affermazione. Radicato e ramificato in ogni classe sociale, instillato nella mentalità e nella cultura che è intrisa della disparità di genere.

E la delicata questione del dominio maschile non è solo un fatto privato, ma collettivo, in quanto come l’autrice spiega, l’umanità intera ha il dovere di ristabilire un nuovo paradigma intorno alla parità di genere, privilegiando la sensibilità e il rispetto.

La lettura del romanzo è ritmica: si entra attraverso dei mini capitoli, delle finestre, nella vita di Maribel, Itiziar e sua sorella Ainoha e delle molte donne che popolano la narrazione, quelle della famiglia, le clienti della pescheria dove la madre lavorava, le amiche, rete preziosa per restare vive e bellissime: “ho sempre saputo che le donne non possono sopportare il patriarcato senza amiche”.

L’unione delle donne storicamente ha sempre generato paure: Ziga cita infatti “la santa Inquisizione Femminicida che non fu una bestia sanguinaria e piromane (…) qualsiasi riunione tra di noi era sospettata di essere un akelarre, un sabba” e bruciare qualcuno significava simbolicamente distruggere le tracce della sua vita e della sua lotta, ma, l’interazione tra le donne, il loro amore per la vita, la loro resistenza convivendo con un’angoscia dentro “che senti tua, ma non è solo tua” ha varcato il tempo.

Rileggendo le fasi del romanzo si riesce a toccare il dolore, scacciare la fatalità e annullare la devastazione. Ridere e piangere, immaginare le feste di Maribel da ragazza e le risate di Itziar e Ainoha da piccole, le premure di amona, sua nonna.

 “In casa mia c’erano due mondi: l’antro dell’orco e il resto delle stanze attraverso le quali ci muovevamo spensierate. L’oscurità e la luce. Per quanto spesso l’orco devastasse il nostro mondo, noi tre lo ricostruivamo subito insieme: quell’allegria quotidiana fu la nostra vera sopravvivenza”.

Itziar Ziga sa raccontare le luci e le ombre e non dimentica la sua impronta giornalistica: fornisce dati, parla delle percosse e degli stupri degli omofobi, delle missioni di pace che calpestano il corpo di donne e bambine, sui centri di detenzione minorile, le aggressioni sessuali quotidiane e di massa. Ma parla anche molto di battaglie, delle donne che si sono ribellate con azioni dirette ed esplosive, e altre con silenziosi scioperi della fame.

Mi nutro delle nostre genealogie e del ricordo messo a tacere di tutte le persone che hanno lottato ovunque prima di me, per rendere il mondo un posto tanto abitabile quanto emozionante”.

Antonella De Biasi

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