“Quando tutti i calcoli astrusi si dimostrano falsi, quando persino i filosofi non hanno più nulla da dirci, è scusabile volgerci verso il cicaleccio fortuito degli uccelli, o verso il contrappeso remoto degli astri”

(M Yourcenar, Le memorie di Adriano)

La Fortuna è una nave della flotta di Plinio il Vecchio. La conduce Lucio, la voce narrante, un ragazzo di Pompei, patrizio di nascita, destinato alla carriera politica, che però è riuscito a strappare un sogno ai genitori e all’imperatore Tito: guidare una nave nonostante tutto, nonostante quell’occhio con cui non vede bene dalla nascita. Fortuna è anche l’occhio malato, che vuol dire possedere un posto per la tristezza e la mancanza e quindi per il desiderio. La Fortuna è in mare e da lì Lucio osserva e si avvicina all’eruzione del Vesuvio che sta accadendo e in qualche modo continua ad accadere perché siamo tutti sotto il vulcano in questo nuovo clima di uragani, incendi ed alluvioni. Quello che sta accadendo al tempo della storia (79 d.c.), a cui Parrella ci riporta, rapendoci quasi – come se il suo fosse un testo antico, o piuttosto perché scrivere di una storia passata debba implicare anche uno sforzo della lingua e non solo dell’immaginazione-, non ha nome, non ci sono parole, perché non è mai successo prima. E poi ci siamo noi che siamo diventati così bravi a mettere nome a tutto ciò che accade, creare neologismi, anglicismi, e parole mitiche, a imparare in fretta, anche quando quello che succede non lo conosciamo davvero. Mettere nomi e non fare niente, “sobbollire” scrive Durastanti. Lucio invece, si getta in quella cortina nera, nel tunnel dove il buio è solido e si ripiega su sé stesso. In quello spazio latente dove il cuore batte dappertutto, prima di raggiungere la vecchia riva irriconoscibile. Lucio tiene la barra della quadrireme, sfida e asseconda la fortuna, o piuttosto sa istintivamente cosa fare, come un buon comandante, ed arriva dall’altro lato. Gli abitanti di Pompei sono morti, sua madre, soprattutto lei; Pompei è lì dove era, ma sepolta sotto i suoi piedi. Lucio ne esce e riporta fino a noi il residuo esatto di tutto quello che è stato.

Questa storia di Parrella ha le dimensioni e la forza di una storia mitologica. Qualcosa di esemplare nella storia, quella lotta che è una resa tra l’eroe protagonista e il copro celeste, il monte che si riversò sulle città ai suoi piedi, quel monte che racchiudeva un mistero, né buono né cattivo, anche se seminò la morte e la distruzione. Tra Lucio e la forza cieca del destino, che il presagio che scuote la storia sin dall’inizio, tinge ancora di più di nero. Tra il giovane e tutto il resto, c’è il filo della vita, che in qualche modo, Lucio riesce a tirare dalla sua parte, nonostante il destino, almeno questa volta. Quel filo che le Parche si passano tra le mani, anche loro rintanate in un monte, all’insaputa di uomini e dei. Nemmeno loro, le grandi divinità, possono entrare nell’antro, anche loro sono inermi tanto quanto gli uomini. Il protagonista ha qualcosa di eroico e scintillante che però stavolta coincide con il punto debole, risvolto di una vulnerabilità che non lo limita, ma che diventa la sua forza: nel caso di Lucio sentire quello che gli altri vedono, sentire il battito della nave. E poi il messaggio (non dirò attuale, non dirò in questo momento di policrisi, dalla pandemia al disastro ambientale, passando per la guerra), quello che permette al mito di legare la contingenza al futuro (non dirò eternità): il passato è il nostro futuro e il futuro è quel giovane che, come Lucio, ascolta i suoi mentori (Quintiliano, Marziale, Plinio il Vecchio, dei boomer?) e sé stesso, e di nuovo sente il mondo che lo circonda. “È stata una lotta per il tempo. Agli dèi non interessa perché essi vivono per sempre: i custodi del tempo siamo noi, che lo cerchiamo nella sabbia della clessidra, lo inseguiamo sulla pietra della meridiana, e lo aspettiamo impazienti osservando le stelle. Senza gli uomini il tempo non esiste, invece noi non esistiamo che nel tempo, e allora lo conserviamo nell’arco eretto per un trionfo, sul rilievo di una stele”.

Gli astri sono ciò che resta, segmento di una caduta già finita, avvenuta in un tempo già finito; eppure, sembrano conficcati lassù, arrestano e fermano in un punto nel cielo, quello che è accaduto e l’essere che, per caso o per destino, si è trovato a contemplarlo. Questa visione e comprensione della cosa “che era prima” (il “senso dell’esterno” direbbe Anna Maria Ortese) assieme alla prima persona legano fortemente il romanzo di Parrella alle Memorie di Adriano di Marguerite Yourcenar. L’opera di Yourcenar è madre ed esempio, come riconosce la stessa Parrella. Eppure, Parrella porta in questa sua storia una noce intima (“il nucleo che esplode”, “lo scrigno” che per Annalena Benini, ne I racconti delle donne, ne caratterizza il raccontare), senza grandiloquenze. Un nucleo che in qualche modo manca alla storia inedita e meravigliosa di Yourcenar. Yourcenar aveva scelto un imperatore, un grande imperatore per mostrarne tutta l’umanità e caducità. Yourcenar ci faceva scendere qui sulla terra dove anche un imperatore è soltanto un uomo, in quel momento caduco, che è il nostro destino comune, quando è difficile conservare dignitosamente la propria essenza umana accanto a un medico che è unico arbitro del tuo corpo, vicino alla morte, che però, in qualche modo è sempre capace di restituirti anche il senso della vita. Parrella in contrappasso, ha immaginato Lucio, un ragazzino assieme al suo sogno, segreto come l’amore ed irrinunciabile come un destino, una specie di Arturo (l’eroe e alter ego morantiano), per mostrarne tutta la sua grandiosità. La noce che sta nascosta in questa storia, che è molto più di un romanzo storico, o tutto quello che un buon romanzo storico dovrebbero essere- è un legame, quel laccio con la propria storia e la propria biografia, che anche quando vuoi nascondere emerge sempre. Quello che è così difficile da rintracciare invece nella Yourcenar delle Memorie, perché la scrittrice non voleva nemmeno sé stessa come intermediario tra sé ed Adriano. Yourcenar l’aveva sempre detto senza mezze parole: la curiosità per la biografia e i suoi aneddoti le sembrava grossiere, di cattivo gusto, così come le sembrava ingenuo pensare di capire la persona che sta dietro l’opera, che è sempre nascosta, sfuggente e impenetrabile. È difficile vedere Yourcenar, la Yourcenar che si immedesima in Adriano, con tutta quella confusione di generi di cui già settant’anni fa avevamo davvero bisogno e che al vederla seduta tra gli scranni dell’Academie française, unica donna, è ancora più riuscita ed esilarante. Vedere proprio lei Marguerite Yourcenar, che la timidezza e la solennità ce l’ha anche nel sangue belga che non ha conosciuto ma che gli scorre nelle vene. Yourcenar che rifà i passi di Adriano, visita la villa di Tivoli, alza gli occhi a guardare la volta sferica del Panteon. La ragazza che non ha conosciuto la madre, morta dandola alla luce, che viaggia col padre, che col padre va spesso a Londra, alla National Gallery, al British Museum, laggiù, in quel museo che fu la nascita dell’immaginazione.

Il residuo custodito all’interno di questa storia non è il magma di quell’eruzione, che per chi è nato sotto il Vesuvio, è un racconto che ti accompagna dall’infanzia, assieme alle visite periodiche agli scavi di Pompei ed Ercolano, ti accompagna mentre giochi nello spiazzale a fare case che sono file di mattoncini, avanzi d’opere in un angolo, uguali ai perimetri di teatri e anfiteatri e case in cui ti aggiravi cercando di immaginare quelle pareti che non c’erano più. Ma è proprio l’infanzia, quella che a furia di vivere dimentichi, che poi ricompare all’improvviso, prepotentemente, e non puoi farci più niente. Parrella lo racconta in un’intervista a Teresa Ciabatti: la madre che dirigeva gli scavi e lei che ne conosceva le pietre come se custodisse le chiavi di quel mondo scomparso. La sera, aspettare la madre mentre gli ultimi turisti si allontanano. le cicale che finalmente zittiscono. Gli scavi vuoti. “Quello di mia madre non sarà mai trovato e dunque ella vagherà sospesa nella mi anima e in quella di mio padre, e lungo le pendici arse del monte”, è il grido di Lucio. E poi ovviamente, dietro Lucio, suo figlio e un pezzo della sua vita.

Una storia, ben narrata, è sempre anche una riflessione e una metafora sulla scrittura. Qui, la scrittura è l’occhio da cui Lucio non vede: quella mancanza dove si forma la passione e quindi l’ostinazione; un difetto che è legato al mistero e alla predestinazione; il punto buio e malinconico che sposta l’asse del mondo, i segni cardinali e ti permette di vedere e di sentire tutto il resto. Le pagine sono la corrente, il vento, lo spazio infinito tra una riva ed un’altra, da capo Miseno alla baia di Stabia, gli astri lassù e il tempo quaggiù, che bisogna lasciar scorrere e assecondare. Un tutto a maglie strette, dove ogni cosa è dentro, la materia da raccontare e il gesto del racconto anche, e non resta neppure un piccolissimo spazio da colmare con le parole. La parola sta dentro, non viene apposta da fuori, perché la vera parola è sempre un prodigio, è sempre ingoiata dai flutti, anche quando il mare è quieto.

Silvia Acierno

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