Un romanzo, questo, che assomiglia a una biografia rivisitata, o, creativa. L’autore del romanzo è un creatore, un narratore, che come molti scrittori, prende spunto dalla realtà per raccontare una storia, che crea, che sfiora delicatamente come una tela bianca, che segna, con una matita, e poi sfuma con il colore, incidendo pennellate su pennellate, fino a ridisegnare quell’idea appena tracciata.

Il protagonista è un giovanissimo scrittore, lo stesso Maugham, che come i pittori di un tempo, amava ritrarsi in qualche sua opera, marginalmente, e nel romanzo La luna e sei soldi lo vediamo così, al margine di un’opera d’arte, dove al centro della scena, troviamo Charles Strickland, ai più, noto come Gauguin. Inizia tutto casualmente, quando il giovane scrittore non era ancora famoso ma probabilmente ambiva a trovare un’occasione per diventarlo, e fu invitato ad un pranzo dalla Sig.ra Strickland, «lei aveva per la lettura una vera passione […], e inventava un mondo immaginario in cui viveva con una libertà per lei irraggiungibile nel mondo d’ogni giorno. Quando le avvenne di conoscere degli scrittori fu come avventurarsi su un palcoscenico che fino ad allora aveva visto solo al di là delle luci della ribalta. Li vedeva come personaggi teatrali, e la sua vita stessa sembrava dilatarsi perché li ospitava e li visitava nei loro ricetti»; era l’inizio del novecento in una Londra di quel tempo, e Charles (il marito) raramente partecipava a questi incontri, lui che si occupava di finanza, ed era alquanto trasparente nonostante la sua fisicità imponente, ma con un lavoro solido che gli dava una certa aria di prosperità. Nessuno poteva immaginare ciò che accadde all’improvviso, esattamente all’improvviso!

Un giorno, Charles fuggì via da tutti, rintanandosi a Parigi. Le voci parlavano di una giovane amante, e il nostro protagonista, al margine ma contemporaneamente al centro di un “disegno”, quando venne raggiunto dal pettegolezzo, spinto da un affetto sincero che provava per la Sig.ra Strickland, andò a trovarla. Inaspettatamente si trovò invischiato nella storia, come inviato discreto e rispettoso, alla ricerca dell’uomo fuggito dalla sua famiglia (aveva anche due figli). Il suo compito era farlo tornare indietro, sui suoi passi, magari non subito, ma comunque a casa, nel suo ambiente dorato. Attraverso la voce narrante, scopriamo che non era vero niente. Nessuna amante. Niente. Niente più amore per la sua famiglia. Niente di niente. Un guscio vuoto colmo di un fuoco invisibile che lo divorava da anni, «era cieco a tutto tranne che a una sua assillante visione interiore». Maugham, dunque, ci racconta di un nuovo Charles, che a tarda età vuole diventare pittore e va a Parigi per trovare la sua occasione, per trovare se stesso, per esprimersi, ma certamente «era ben strano che l’istinto creativo avesse invaso questo grigio agente di borsa».

Il narratore appare sbalordito, forse non gli crede del tutto, ma il lettore annuisce. Il lettore, a questo punto, inizia a comprendere. Il lettore è anch’esso un’artista in cerca di se stesso. E se il narratore scrittore sembra non riuscire ad afferrare questo nuovo uomo, incurante delle convenzioni sociali e addirittura della natura stessa (come si può’ ambire a diventare un pittore a tarda età, senza neanche avere ricevuto un minimo di insegnamenti?), il lettore vero, che conosce la passione, lo afferra con facilità. Ma siamo anche in un’altra epoca, molto diversa da quella in cui lo scrittore narratore scrive. Un’epoca, la nostra, dove siamo ormai abituati, ed in qualche modo educati, a seguire la nostra natura, anche fuori tempo; non c’è un vero tempo o limite per realizzare se stessi. Nel frattempo scopriamo anche che Charles, contrariamente alla maggioranza degli inglesi, era completamente indifferente al comfort, e a Parigi è vissuto di stenti, fino a sfiorare la morte, se non fosse stato per l’aiuto e la bontà estrema di un pittore più fortunato, Dirk Stroeve, l’unico che riconobbe il genio che era in lui, e che in un dialogo con Maugham dice (più o meno, ma così riporta lo scrittore) che: «La bellezza è qualcosa di strano e meraviglioso che l’artista plasma dal caos del mondo nel tormento della sua anima. E quando l’ha creata, non a tutti è dato comprenderla. Per riconoscerla devi ripetere l’avventura dell’artista.»

Il nostro uomo, rivelatosi pittore in tarda età, era, si, divorato da un fuoco invisibile che si fa visibile e che si chiama vocazione, destino di ogni essere umano che ha la fortuna e la forza di inseguirla, ma era privo di gratitudine e amore. Indifferente anche agli affetti oltre che al comfort.

La fine di Charles la conosciamo un po’ tutti, ed è a Tahiti, un luogo che riconosce come il suo posto nel mondo, benché fuori dal mondo, che le parole non riescono a descrivere, se non cercando di trasmettere la bellezza di un Eden. «E lui viveva là, dimentico del mondo e dimenticato dal mondo.»

In quell’angolo di paradiso, giunge anche il nostro scrittore, che parlando con chi l’ebbe conosciuto, ci narra dell’ultima opera di Gauguin: «Una visione degli inizi del mondo, del Paradiso terrestre, con Adamo ed Eva – que sai-je? -, un inno alla bellezza della forma umana, maschile e femminile, l’esaltazione della natura, sublime, indifferente, incantevole e crudele. Ti dava un senso arcano dell’immensità dello spazio e dell’infinità del tempo.»

Alessandra De Angelis