La vita delle cose (Laterza 2009) è un titolo strano, se si pensa che, per definizione, rientra nella categoria di oggetto tutto ciò che è inanimato, senza vita. E invece, secondo il filosofo Remo Bodei, le cose vivono eccome e recuperare questa vita è fondamentale “per ridare al mondo un senso più pieno”, per rintracciare un significato più complesso dell’esistenza.

Come infatti spiega il filosofo, il pensiero umano, nel tentativo di razionalizzare il reale, esercita un immediato dominio sulle cose. “A scopo pedagogico per identificarle, le abbiamo scarnificate, compresse nella loro polisemia e classificate. Isolandole dallo sfondo e dalla nostra attività, nel pensarle abbiamo tolto loro ogni riferimento a noi, riducendole a entità materiali che ci stanno semplicemente davanti. […] Impariamo così a situarle in una mappa spaziale e temporale, a farne uso o a rinunciarvi, a comprarle o a venderle, a dar loro valore o a trascurarle, ad amarle, odiarle o rendercele indifferenti. Nel condurre tutte queste operazioni trascuriamo il fatto che già la percezione rivela nelle cose innumerevoli differenze e sfumature.”

La prima operazione concettuale da compiere, dunque, per Bodei, è operare una distinzione fondamentale non tanto tra le entità materiali, ma tra le parole. Distinzione che il suo ragionamento motiva a partire da un’analisi etimologica dei lemmi “cosa” e “oggetto”.

La parola “cosa” altro non sarebbe che la contrazione del latino causa, cioè ciò che per noi è talmente importante da spingerci all’azione. C’è in questa parola, dunque, il senso di una dimensione collettiva e agente, un principio di relazione che coinvolge. La parola “oggetto”, al contrario viene, fatta risalire dal filosofo dal latino obicere,inteso come “gettare contro, porre innanzi”. L’idea è perciò quella di un ostacolo, di un impedimento che provoca un arresto. Un qualcosa che si oppone al soggetto. Pensare al mondo reale come un insieme di “oggetti” significa dunque creare una frattura tra soggetti ed entità materiali destinandoli unicamente a contrapporsi. Ma “la cosa non è l’oggetto, l’ostacolo indeterminato che ho da abbattere o aggirare, ma un nodo di relazioni in cui mi sento e mi so implicato e di cui non voglio avere l’esclusivo controllo”. La “vita” di cui il filosofo parla, dunque, è una proprietà specifica delle cose e non degli oggetti, e gli oggetti, secondo il suo pensiero, diventano cose solo nel momento in cui sono investiti da una carica affettiva e valoriale, assumendo così una dimensione sovraoggettuale.

Facendo riferimento ai meccanismi psicologici descritti da Freud in Lutto e melanconia, in questo libro Bodei spiega teoricamente quella che è in effetti è un’esperienza comune, ossia il fatto che ognuno di noi finisce per proiettare sulle cose valori emotivi e simbolici, significati intellettuali e affettivi. Le cose, con il tempo, allora, si rivestono di una stratificazione di senso, di una complessità di significati destinata a disvelarsi al soggetto che le interroga e in questa capacità comunicativa ed emozionale consiste la loro dimensione vitale.

Ognuno in fondo conserva nei propri cassetti vecchi e nuovi amuleti apparentemente insignificanti e contemporaneamente preziosissimi agli occhi di chi li custodisce, non tanto per quello che valgono, ma per quello che dicono. Ricordi, nostalgie, promesse, rimpianti sono solidificati in oggetti a priva vista innocui e senza valore. Da cui mai ci separeremmo.

Ma cosa succederebbe se, come ci invita a fare il filosofo, sospendessimo quell’ovvietà dello sguardo che riserviamo agli oggetti, se smettessimo di trattarli solo come strumenti, utensili, attrezzi? Cosa accadrebbe se cominciassimo a guardare tutte le cose, non solo i nostri speciali ricordi, con attenzione, se cominciassimo a interrogarle, lasciarle parlare per coglierne i significati più profondi?

A questa domanda Bodei così ci risponde: “qualsiasi oggetto è suscettibile di ricevere investimenti e disinvestimenti di senso, positivi e negativi, di circondarsi di un’aura o di esserne privato, di ricoprirsi di cristalli di pensiero ed affetto, di arricchire o impoverire il nostro mondo. […] Le cose non sono soltanto cose, recano tracce umane, sono il nostro prolungamento”. Ed è proprio qui il senso umanissimo del suo ragionamento. Recuperare “la vita delle cose” vuol dire recuperare parti della nostra vita, recuperare profondità e complessità, ricostruire relazioni con il tempo e lo spazio nel mondo velocissimo delle imperanti “cose senza valore”.

“Salvare gli oggetti dalla loro insignificanza dal loro uso puramente strumentale vuol dire comprendere meglio noi stessi e le vicende in cui siamo inseriti, giacché le cose stabiliscono sinapsi di senso tra i vari segmenti delle storie individuali e collettive, sia tra le civiltà umane e la natura”.

Per questo Bodei cita alcuni versi di Pablo Neruda

[…]

molte cose
mi hanno detto tutto.
Non solo
m’hanno toccato
o le ha toccate la mia mano, 
ma hanno
accompagnato
in modo tale
la mia esistenza
che con me sono esistite
e sono state per me tanto esistenti
che hanno vissuto con me mezza vita
e moriranno con me mezza morte.

Dare vita alle cose, per recuperare vita noi stessi.
Anche a questo serve studiare il design.

Loredana La Fortuna