“Le corps de l’homme et le corps de la femme peuvent rester à peu près constants, mais les chiffres susceptibles d’être écrits avec des corps d’homme et de femme sont d’une variété inépuisable » (H. Foucillon, 1881-1943)

Spesso compiliamo delle liste, chi più, chi meno, a seconda del grado di controllo che esercitiamo su noi stessi, in un rituale che alla fine dei conti ci conforta. Quelle liste finiscono accartocciate e piene di cancellature: hanno svolto la loro funzione di promemoria, quello che abbiamo tacciato probabilmente sarà qualcosa che avremo portato con noi, non una perdita ma qualcosa che dalla carta si è trasferito altrove, procurandoci una certa soddisfazione. Penso alle liste famose di Joan Didion, “to pack and wear”, in cui il paio di calze o il reggiseno hanno lo stesso peso del Bourbon e della macchina da scrivere, elementi dal valore esagerato, sicuramente. Perché la moda è anche quello di cui abbiamo bisogno per la nostra vita quotidiana, come le chiavi di casa, ma è pure una proiezione: quell’immagine di noi stessi che non finisce nel nostro corpo ma ha bisogno d’altro per completarsi, una specie di divisa che portiamo con noi nei nostri spostamenti. Come diceva Didion la moda ci permette di “pass on either side of the culture.” Ci permette di passare dall’ordinario allo straordinario.

Anche per Alessandro Michele, già direttore artistico di Gucci, ed Emanuela Coccia, professore di filosofia a l’École des Hautes Études en Sciences Sociales a Parigi, la moda è un “portale”, che ci conduce altrove, trasformando il divino in presenza quotidiana. Non solo. Per un creatore così eclettico come Michele, e per un pensatore così sovversivo e poco “disciplinato” come Coccia, la moda si moltiplica in mille sfaccettature. È l’accessorio imprevedibile, un’azione sacrale, la sintesi delicata e possente di uso e contemplazione, un mondo immaginifico, una vita parallela più splendente, luogo del mito, un sonaglio dell’anima, una fantasmagoria, una reliquia, una luce, un bagliore, quel gesto capace di trasformare l’ordinario in meraviglia, un segreto da decifrare, sogno ad occhi aperti, una rinascita, “lo strano metabolismo che intreccia creazione e distruzione”, un’interfaccia tra il soggetto e il mondo, un supplemento d’anima, una mappa, allucinogeno, moltiplicatore d’amore; un corridoio capace di trasportare le nostre multiple identità verso il mondo, in un passaggio da copro a corpo; un’inedita forma di felicità; incarnazione, irradiazione, mescolanza di codici, un mantra, una via di fuga, moltiplicatore di esistenze (per questo ambigua); epifania, alchimia, rabdomanzia. Incanto, quello che la modernità ci ha tolto; un demone, l’evocazione di una divinità; un ultracorpo, disordine meraviglioso, la possibilità dell’errore; tessuto connettivo; una liturgia a cui (purtroppo) bisogna essere invitati, quindi per pochi eletti; un abbraccio erotico; una visione del mondo e perciò una riflessione metafisica (anche se, mi pare, dal contenuto etico e filosofico fragile).

Michele conferma quello che si dice di lui come lo stilista più cinematografico di tutti (Antonio Mancinelli), raccontando come la collezione prenda forma da frammenti di vita osservati per strada, al bar, sulla scena urbana, a creare un personaggio, fino ad immaginarne la vita, la storia, come in una sceneggiatura in cui il look, viene dopo o con: è il costume disegnato da un costumista, “nel film a cielo aperto che è la moda”.

Ma la moda è soprattutto un atto di liberazione: liberazione del passato dalla cronologica in cui è incastonato e fossilizzato. La meravigliosa possibilità di affrancare le vite, i gesti e i desideri depositati negli oggetti. La libertà di immaginare nuove biografie. Di liberare noi stessi e le nostre emozioni che finalmente comunicano, fluiscono, si mescolano a quelle degli altri per ridisegnare una nuova geografia, delle nuove relazioni, una nuova casa (Filosofia della casa di E. Coccia). Finalmente “significa potersi trasformare nell’immagine attraverso cui i corpi si riconoscono come diversi da quello che sono”. Quel luogo di scambio, pausa tra giorno e notte, membrana dove avviene la vita e ogni sua trasformazione. Il filo che ti porta dall’ altra parte.

Vita delle forme è stato anche il titolo di un testo di Henri Focillon. Lo storico d’arte francese già rifletteva agli inizi del Novecento su forma e contenuto (tanto per ribadire un altro mantra di Michele, come il pensiero sia la copia della copia), e soprattutto ne sovvertiva la distinzione scolastica: le contenu de la forme est un contenu formel. “Il existe une région de la vie de l’esprit ou les formes les mieux défini retentissent avec diversité”. “La vie est forme et la forme est le mode de la vie” la forma non è solo la curva, la linea, il taglio, il contorno, la sagoma. La forma è un sistema di relazioni che fa tutt’uno con l’attività, con il contenuto, non delimita l’arte ma la produce; come un terremoto che scuote la terra indipendentemente dalla linea del sismografo. Scrive ancora Focillon, la forma continua, si propaga nello spazio e nell’immaginario, suggerisce altre forme, si moltiplica.

Per Michele e Coccia, aggiungendo una torsione ulteriore a questa distinzione, la forma è materiale biologico, rovescio di quell’altra meravigliosa intuizione di Coccia per il quale il nostro pianeta è un artefatto, un’architettura (La vita delle piante). Come tale la moda si intreccia al tempo (quel tempo che la filosofia ha cercato di spiegare, capire, superare o ignorare). Ma non nel senso ovvio di “contemporanea” (anche se volgiamo ampliare e usare il concetto di contemporaneità sviluppato da Agamben come scarto temporale rispetto al presente) né in quello altrettanto ovvio di anticipatrice e creatrice di futuro (come se l’arte debba sempre proiettarsi in avanti, immaginare il futuro, prefigurare). Piuttosto come un continuum, quello che sta già lì, prima di tagliare l’abito, prima di cominciare a raccontare l’intrigo, e che continuerà ad essere là, dopo, dopo che l’intrigo si sarà consumato, in attesa di uno nuovo fruitore, di una nuova vita. Le “contaminazioni temporali”, le diacronie di cui parla Michele, sacerdote urbano di ogni mescolanza, da erudito (anche degli oggetti e degli stili) e collezionista (lui preferisce la parola francese “conservateur”), mi sembrano più vicine a quest’idea di tempo. La moda di cui parlano Michele e Coccia lavora sul tempo da estremo ad estremo, ritrovando l’inizio di una storia (operazione ugualmente veggente e sapiente, perché quello che siamo stati non ci appartiene più o non ci è mai appartenuto) e anticipandone la direzione (che sarà sempre un segmento limitato, solo un “cuore lanciato in aria, che brilla senza sapere dove atterrerà”, un resto invisibile che indica una direzione diversa). Qui Il passato non sarà il passato (che aspira a ripetersi uguale a se stesso) né il futuro, la novità (che come scrive Benjamin, è l’estrema identità a se stessa). Forse su quella soglia che Byung Chul Han chiama (citando Heidegger) il “plus proche”, più vicino, la contemplazione dell’oggetto più vicino, tridimensionale (aggiungo) che sfugge costantemente alla nostra vista.

C’è un piccolo libro di Louise Bourgeois, intitolato Moi, Éugenie Grandet, in cui Bourgeois evoca attraverso ricami e disegni il personaggio di Balzac, per cucirsi addosso (è il caso di dirlo visto che Bourgeois cominciò sartina che rammendava vecchi tappeti che il padre comprava e la madre restaurava) quell’identità che lei sente come gemella (entrambe soffocate da un padre ingombrante). Non cito a caso Bourgeois che è stata anche creatrice delle molteplici trasfigurazioni del passato con il suo profumo, le sue stanze, le sue case, la provincia e le sue ore calme e misteriose racchiuse in un necessaire. Bourgeois fa l’autoritratto di sé stessa come qualcun altro, come quell’immagine di sé più nascosta che in qualche modo il corpo da solo non riesce a comunicare, per la quale il corpo da sé non si basta. L’abito, ci sembrano dire Coccia e Michele, ci offre la possibilità di autoritrarci ancora più fedelmente di un immagine riflessa: noi stessi come qualcun altro.

La moda di Alessandro Michele compie il suo percorso euforico e filosofico, accumula, attraversa il passato e il pensiero, i rumori della casa e i suoi silenzi, il brulichio della strada che è solo un ricordo,  gli angoli che sono prismi, rifugi dei sogni, corridoi, scale che sono cassette di natali passati, stanze (sette sono i capitoli), armadi, bauli, cofanetti rivestiti di velluto, e cassetti, tanti, sempre più diminuti, pieni di anelli, pietre, broccati e segreti. Tutto possiede una voce e una forza di vita.

Tutto possiede un’anima. Non mi è difficile capirlo e sentirlo. “Tutti i bambini dialogano con pupazzi e bambole”. Attraverso i miei figli ho avuto più volte l’occasione di osservare anche la loro relazione con le cose. I bambini posseggono un animismo innato, l’ho visto tutte le volte che si sono rifiutati categoricamente di lasciare andare un vecchio giocattolo, nel tenerli intassati nel cassettone sotto il letto, comunque, anche se hanno smesso di giocarci, non solo le loro appartenenze ma gli oggetti tutti, dalla pallina di vetro sbeccata raccolta in un angolo del cortile di scuola, al pezzettino di carta unto su cui hanno disegnato l’ennesimo animaletto dagli occhi dolci; ma soprattutto nella felicità di riscattare dal suo destino di abbandono quel peluche sporco e mordicchiato, che adotteremo e si chiamerà per sempre Dedé, e nella tristezza di dover lasciarne un altro sbrindellato, in una scatola di oggetti scoloriti e poco amati su cui una mano adulta ha scritto sbrigativamente à donner, perché mamma è una rompiscatole e dice che non possiamo. Michele scrive: “Ho sempre avuto bisogno di avere accanto questa coperta di oggetti di cui ogni abito è del resto metamorfosi e sublimazione amorosa”. Panteismo, metamorfosi e gemellanza sono dei concetti chiave nel lavoro filosofico di Coccia.

Chiudevo tempo fa la recensione del testo seminale di Maria Luisa Frisa, Le forme della moda, su un baule che raccoglieva quello che restava del passato, di noi che eravamo stati bambini, di mia madre che era stata ragazza, di mia nonna che era stata una donna. Il baule stava accanto a un divanaccio di pelle verde, attaccaticcio e fresco, quello delle sieste d’estate con la nonna, sul pavimento con il bordino arancione, con le palle di carta delle battaglie con mio fratello, nella stanza sul giardino dove stavano le cose della nonna che viveva con noi, una riproduzione in miniatura della sua casa dentro la nostra casa che era stata sua prima di essere nostra. Tutto questo non c’è più, il baule partì con la ristrutturazione di quella stanza in cui mia nonna non aveva più tanta forza ne voglia di scendere, uno dei suoi musi lunghi, delle sue famose decisioni irrevocabili. Quella stanza ristrutturata non è più nostra. Quel baule sta dove sarebbe comunque stato; in quel posto della memoria  tra il sogno e il ricordo, dove la polvere è una cascata di nostalgia e desiderio. Sta in una specie di inconscio, nel posto della reiterazione, delle infinite versioni del medesimo abito e della medesima storia. Di quello già vissuto, dove il mio DNA è quello dei miei genitori, un frammento rubato o preso a prestito, e la direzione è anche deviazione eppure radice. Arrivata lì, almeno per me (che non sono una visionaria), gli abiti svaniscono, passano in secondo piano. Lì a sentire l’energia dell’origine e la vita che è sempre solo un bozzetto. Lì dove per Michele c’è quell’immagine netta e quadrupla di lui bambino, delle madri gemelle e di suo padre.

“Nelle case degli anni Sessanta e Settanta c’era sempre un baule con le cose della zia, della nonna o della mamma che non erano state gettate via. Intorno a quei bauli tutte le mamme parlavano spesso di un tempo perduto”, scrive Michele.

Il baule è immagine dell’inside. Louise Bourgeois “I look inside and my model is really myself”. Dove quel “myself” si modella continuamente.  È l’immagine chimerica che si avvita sullo stelo della scultura o della silhouette. La frenesia che è solo un’ondulazione di una forma basica. Quell’attimo incantato in cui riusciamo a diventare ciò che immaginiamo.

Silvia Acierno